L’altezzosità della nostra barbarie

Autore

Gianpaolo Carbonetto
Gianpaolo Carbonetto è giornalista e responsabile di programmi culturali e di formazione, studioso dei fenomeni più rilevanti della cultura e della democrazia.

Avete presente quando, di notte, dall’interno di una stanza illuminata tentiamo di vedere qualcosa al di là delle finestre chiuse? Quasi sempre oltre i vetri, nel buio, l’oggetto della nostra attenzione resta difficilmente definibile nei particolari, ma continuiamo a sforzare i nostri occhi proprio su quello, mentre ci disinteressiamo totalmente dell’immagine che la lastra ci rimanda in maniera dettagliata: il riflesso del nostro volto. E per non vederlo basta spegnere la luce della stanza e far restare al buio anche noi.

È più o meno quello che facciamo quando siamo impegnati a illuminare i difetti altrui e a cercare alibi e scusanti per i nostri. L’unica differenza consiste nel fatto che per impedire di guardare noi stessi non chiudiamo la luce, ma cancelliamo, o stravolgiamo il significato delle parole.

Per esempio, ultimamente per indicare i poveri, gli homeless, gli handicappati fisici e mentali, gli anziani soli, i sofferenti in genere, è diventato abituale parlare degli “invisibili”, mentre invece li vediamo benissimo e infatti non di rado ci capita di cambiare marciapiede proprio per evitare incontri ravvicinati. Ma ci fa comodo chiamarli così perché probabilmente sembrerebbe anche a noi eccessivo usare il termine che meglio si attaglia al sentire di una società in cui l’importanza dell’apparenza è molto superiore a quella della sostanza e che in realtà li vede come “inguardabili”, un po’ perché rovinano il paesaggio e molto perché sono un plateale atto d’accusa contro l’inadeguatezza della società e, quindi, di noi stessi. 

Altra parola che torna magnificamente utile per camuffare la realtà in un mondo che sempre più profondamente è dominato dal risentimento e dalla paura è “barbarie” che deriva da quel “barbaro” che è considerato sinonimo di straniero, rozzo, incolto, primitivo, selvaggio, crudele, efferato, ma che, in realtà, è una parola estremamente scivolosa perché particolarmente altezzosa e, quindi, spesso anche ignara del senso del ridicolo che porta con sé.

La parola barbaro nasce nella Grecia antica e usa l’onomatopeica ripetizione della sillaba “bar” per definire i non greci, coloro che balbettavano mentre tentavano di parlare la lingua ellenica. Quindi, inizialmente si trattava quasi di una semplice constatazione di fatto e non ci si sentiva responsabili di esprimere un giudizio di merito, anche se già Platone, nel “Politico”, prendeva in giro coloro che pensavano che tutti barbari formassero una popolazione omogenea, mentre in realtà quei popoli non si capivano nemmeno tra loro. Ma quasi subito, inevitabilmente, a questa distinzione si è attribuito un ulteriore significato con annesso giudizio di valore e così al dualismo “greci/barbari” si è aggiunta quello “civilizzati/selvaggi”.

In realtà nella letteratura classica non c’è alcun testo che ricapitoli organicamente quali sono i pregi dei greci (che poi diventeranno quelli dei romani e, ancora dopo, quelli di tutti i popoli che hanno risentimenti nei confronti dei vicini) e i difetti dei barbari. Però, leggendo soprattutto Euripide e Strabone, li si può più o meno riassumere così: i barbari sono quelli che non rispettano le leggi più importanti della vita comune: l’uccisione di parenti, l’incesto, il cannibalismo, la crudeltà vista come vanto, la mancanza di pudore, l’ignoranza dell’ordine sociale.

Il problema è che le regole sono stabilite proprio da chi poi su quelle regole imposta il proprio giudizio. E allora è inevitabile chiedersi se è possibile applicare gli stessi criteri per giudicare atti che appartengono a culture, tempi e luoghi differenti. E anche in questo caso le possibili risposte sono entrambe scivolose. 

Infatti, se uno crede nei giudizi assoluti rischia di considerare universali valori che, invece, sono soltanto culturali, se non abitudinari, e questo diventa un vero pericolo perché fa convincere che le popolazioni umane non siano uguali tra loro e che, quindi, non esista l’universalità della specie e che ci sia quasi un obbligo, per i fortunati depositari del giusto, di donare la propria morale e la propria etica a chi ne possiede una diversa. Tzvetan Todorov ha messo questo concetto perfettamente a fuoco con una folgorante intuizione che ha racchiuso in quella che ha definito la “tentazione del bene”, cioè la certezza di possedere il vero concetto di virtù, collegata con la determinazione di imporlo agli altri, per il loro supposto bene, anche con la forza, anche a costo di seminare violenza e morte.

All’opposto un grosso pericolo è corso anche da chi crede che tutti i giudizi siano relativi perché legati a una cultura, a un luogo, a un momento della storia, perché se ogni giudizio di valore è sottoposto alle circostanze si finisce per accettare tutto, purché accada a casa degli altri. E anche in questo caso l’universalità della specie risulta negata.

Sta di fatto che anche oggi siamo chiamati quotidianamente a individuare i “greci” e i “barbari” e non possiamo avere un prontuario che ci risolva ogni problema di giudizio. Non basta a consolarci, poi, il fatto che fin dalle origini questo problema stia angustiando il genere umano. Strabone ci racconta che Eratostene, verso la fine di un suo trattato geografico ed etnografico, purtroppo andato perduto, disapprova la divisione del mondo tra greci e barbari e consiglia Alessandro Magno di assumere come criterio di divisione la contrapposizione “virtù/disonestà” che non necessariamente corrisponde al dualismo “noi/altri”.

Se, insomma, è legittimo usare il concetto di barbarie per indicare coloro che relegano gli altri al di fuori dell’umanità, ne consegue paradossalmente, ma inevitabilmente, che trattare gli altri come disumani, mostri, selvaggi è già una delle forme di questa barbarie. 

Maggiormente praticabile appare, invece, un ragionamento che si basi sulla cultura e sulla conoscenza; un ragionamento che parte anche dal fatto che per i greci un uomo che non riusciva a esprimersi compiutamente e quindi era un balbettante, un barbaro, appariva incompleto. E in questa considerazione non è secondario il fatto che allora ad Atene e nelle varie polis il vocabolo “logos” indicava sia la parola, sia la ragione.

Forse uno spiraglio di comprensione lo si può aprire proprio guardando quel vetro di cui si parlava all’inizio e studiando quella faccia riflessa che ci aiuta a comprendere che i barbari non sono soltanto fuori, ma anche dentro di noi; perché tutti noi non siamo perfetti e, quindi, ci portiamo dentro più o meno grandi parti di barbarie.

Non è un passaggio irrilevante; anzi. Oggi sentiamo sempre più spesso parlare di sovranismi intesi come supposte identità che si confrontano e si affrontano, mentre sarebbe molto più utile tentare, con il dialogo, di capire quello che ci differenzia e di sforzarsi non di imporre agli altri quello che crediamo sia giusto perché siamo abituati a ritenerlo tale, ma di continuare a discuterne, pronti a insegnare, ma anche a imparare. Tenendo sempre presente che è molto più facile sentirsi superiori, o inferiori agli altri, mentre è difficilissimo sentirsi uguali agli altri, condizione necessaria in un’impresa così complicata.

Il problema – e non è superfluo ribadirlo – è sempre di tipo culturale e, quindi, può essere traslato facilmente anche all’interno di una stessa società. Per capirci, non è forse barbaro l’italiano che non conosce la sua Costituzione e che, quindi, non possiede i parametri che questa società si è data per la vita comune? E non è forse barbaro colui che questa Costituzione vuole sovvertire, cancellando diritti faticosamente conquistati? E non siamo forse barbari noi che, pur avendo avuto come esempi coloro che hanno dato la vita per affrancarci dalla dittatura nazifascista e coloro che sono stati uccisi per aver difeso le istituzioni durante il periodo delle stragi e del terrorismo, non ci chiediamo come abbiamo fatto a tradire così tanto quei sacrifici, e come abbiamo fatto a disattendere così tanto quelle speranze? Tanto barbari che, per paura di sporcarci, ci siamo allontanati dalla politica, unica chiave possibile per dare consistenza a una democrazia. Tanto barbari da rinunciare addirittura al diritto di voto.

I barbari, insomma sono dappertutto, fuori di noi, ma anche dentro di noi. Altrimenti perché noi, che siamo così attenti e reattivi davanti alle invasioni dei nostri territori, personali o collettivi che siano, siamo diventati così apatici e rassegnati davanti alle invasioni, frequenti, penetranti, perniciose, dei nostri diritti?

E, pur in questa situazione, continuiamo altezzosamente a ritenere barbari soltanto gli altri.

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