Il privilegio di rimanere umani

Autore

Chiara De Pol
Professionista della comunicazione e lavora in una delle aziende più importanti del settore turistico in Italia, Trentino Marketing. Si laurea in management per il turismo e si specializza in social media customer care a H Farm, e ottiene un master a IED Milano in Influencer marketing. Dopo un’esperienza pluriennale nel mondo della comunicazione tradizionale italiana ed estera, si specializza nella comunicazione dei nuovi media. Grazie al lavoro degli ultimi anni si è ritagliata un ruolo importante all’interno dell’azienda diventando il membro più giovane del Team di management di Trentino Marketing; è inoltre member dello strategic editorial commitee dell’azienda e ricopre il ruolo di Responsabile Social Media & Influencer Marketing oltre che a quello di Vice Head of Brand & Communication. E’ altresì a capo della comunicazione social di alcuni dei più importanti eventi del Trentino, tra cui Il Festival dell’Economia, Il Festival dello Sport e I Suoni delle Dolomiti e coordina l’intera comunicazione dei canali social di Visit Trentino. Ha collaborato come Guest Professor per IED Milano, Università di Verona e Trentino School of Management. I suoi hobby invece la portano in montagna: è infatti Founder di Trekking Rosa, un progetto di comunicazione non convenzionale per la prevenzione del tumore al seno, contributor di Donne di Montagna e Presidente dell’Associazione Lotus - oltre il tumore al Seno.

«Invecchiare? Può essere un favore che ti fa la vita».

Così Monica Bellucci risponde alla domanda di un giornalista colpito dal fatto che non avesse più vent’anni e ancora “osasse” presentarsi in pubblico. 

Lei è invecchiata senza chiedere il permesso a nessuno, scatenando una tempesta di indignazione tra i focosi combattenti dell’anti-invecchiamento. Combattenti, per l’esattezza. Come se invecchiare, vedere il lusso del tempo che passa sulla nostra pelle, non fosse più concesso. Come se fosse qualcosa a cui dovremmo opporci o mettere rimedio.

Ma perché non si accettano più i segni che questo tempo che passa ci lascia? Perché non è più accettata la nostra unicità ed invece viene ricercata, con spasmodica frenesia, un conformismo piatto e noioso?

Sicuramente una delle risposte va ricercata nella percezione che ognuno di noi ha di sé stesso. Negli ultimi anni è aumentata in virtù della sovraesposizione mediatica che tutti noi oggi abbiamo tramite lo smartphone, tramite l’iperconnessione e ovviamente i social media. Si è più attenti, ci si mostra per costruire, attraverso scatti suggestivi e selfie filtrati, un’identità digitale più bella, più attraente, più interessante, semplicemente “più”.

Ci si scatta il selfie e ci si vede in diverse proiezioni, con colori di capelli diversi, con gli occhi più o meno allunganti e le labbra più o meno gonfiate. Si cerca una versione che il web approvi con un bel pollice su. E più “pollici su” abbiamo, più siamo appagati e soddisfatti, di essere riusciti a catturare quella attenzione, alle volte vasta, che nella vita “faccia a faccia” sarebbe difficilmente ottenibile (mica giriamo con al seguito centinaia di persone che ad ogni passo ci fanno un applauso).  

Il “selfie dismorfismo” o “Snapchat dysmorphia”, termine coniato dai ricercatori del Dipartimento di Dermatologia della Boston University School of Medicine, è la percezione edulcorata che alcune persone hanno di sé stessi proprio a causa delle infinite possibilità di modifica della nostra immagine; indica il desiderio di assomigliare alla versione filtrata di sé stesso. I filtri dei social media, inizialmente un’opzione innocente per divertirsi con i selfie, hanno assunto un ruolo più complesso. Oltre a nascondere imperfezioni, possono, infatti, alterare il nostro aspetto e creare un’altra immagine di noi stessi, un’immagine che nasconde insicurezze e uniforma verso standard definiti dai trend del momento. Per raggiungere questa “perfezione” dettata dall’algoritmo del momento, alcune persone arrivano addirittura a sottoporsi ad interventi di medicina estetica per assomigliare ai loro selfie. 

L’impatto dei social media sulla salute mentale è un argomento complesso e dibattuto, e non sarà certo questo articolo a sbrogliare l’annosa matassa. Una riflessione però posso stimolarla. Quello che è certo è che questo costante confronto digitale con le altre persone, questa ostentata comparazione sociale, questa ricerca della “vita perfetta” degli altri può far sentire le persone insoddisfatte della propria. 

La barbarie di cui sto parlando è la manipolazione psicologica che sofisticati algoritmi, riescono a perpetrare creando dipendenze e selezionando per noi contenuti gratificanti sulla base dei nostri comportamenti online. 

Come ne possiamo uscire? Forse una via c’è. Ed è quella di allenarsi ed educarsi sempre più ad un pensiero critico. Un pensiero che si esercita ponendosi domande, esercitando il dubbio, ricercando punti di vista ed informazioni diversi e da fonti diverse.

Viviamo nell’epoca, infatti, dove esiste una forte ibridazione, tra vero e falso (immagini, notizie, addirittura persone…); non si riesce più a discriminare ciò che è stato costruito digitalmente da ciò che è reale e gli strumenti che abbiamo a disposizione per vedere e per articolare differenze sono poco conosciuti. A questo si aggiunge l’apatia e l’abitudine con la quale fruiamo di ciò che vediamo in rete e una soglia dell’attenzione sempre più bassa: questi fattori combinati assieme sono il cocktail perfetto verso l’accettazione passiva di ciò che l’algoritmo ci sottopone.   

“The tools are going to get better, they’re going to get cheaper, and there will come a day when nothing you see on the internet can be believed,” queste sono le parole di Wasim Khaled, CEO di Blackbird.AI, un’azienda che aiuta a combattere la disinformazione e a sapere riconoscere ciò che è vero da ciò che è stato creato dall’ AI. 

E quindi di fronte a questi fenomeni che sono ormai strutturali e propri di questa epoca, dovremmo saper opporre degli antidoti: alla omologazione delle idee (e delle facce) è necessario tornare a porsi domande, dubbi ed esercitare un pensiero critico. In sintesi, i social media e l’AI hanno un impatto profondo sulla cultura e sulla società, ma è importante usarli consapevolmente per evitare “barbarie” su noi stessi, sulla nostra cultura e la nostra società. Resistere a queste barbarie vuol dire anche avere il privilegio di rimanere “esseri umani”.

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