Fucilato dalla falange franchista, il 19 agosto 1936, muore Federico Garcia Lorca. A contraddistinguere la barbarie, più di tutto, è l’insopportabilità della bellezza. È il duende la dimensione più intollerabile per i massacratori. «La virtù magica del componimento poetico consiste nell’essere sempre intriso di duende […] con duende è più facile amare, comprendere, ed è certo essere amati, essere compresi […]». Così si era espresso il poeta nella conferenza ‘Juego y teoria del duende’, tenuta a Buenos Aires nel salone della Sociedad de los Amigos del Arte, il 20 ottobre 1933. Quell’energia dionisiaca o forza magica che alimenta l’espressione artistica e che viene dal mondo interno, dai suoi meandri luminosi ed oscuri per esprimersi in creazioni estetiche uniche e straordinarie, estende e fa soffrire, esalta e travolge, al confine tra la vita e la morte. Lorca scrive: «Il duende, quindi, è una potenza, non un’opera. È una lotta, non un pensiero. Ho sentito un vecchio maestro di chitarra dire: “Il duende non è nella gola; il duende sale dentro di te, dalle piante dei piedi”. Vuol dire questo: non è una questione di abilità, ma di stile vero e vivo, di sangue, della più antica cultura, di creazione spontanea».
L’esperienza del duende è ignota ai più; è invisa a molti, ma porta l’umano sulla soglia delle altezze più sublimi. Nulla la teme come il pensiero totalizzato e tende a negarla in ogni modo con la barbarie. La distruzione del corpo fisico è solo una delle vie che la barbarie pratica per negare e distruggere il duende. Come aveva intuito da par suo Iosif Brodskij, il più lo fa, e diffusamente, la volgarità. Non so se la bellezza salverà il mondo, ci ha lasciato detto; ma certamente la volgarità lo distruggerà. La poesia, secondo Brodskij, è l’unica assicurazione contro la volgarità del cuore umano. Lo è soprattutto quando, nel dolore, ci perdiamo o rimaniamo soli, come negli addii:
Addio
Addio,
dimentica
e perdona.
E brucia
le lettere,
come un ponte.
E che sia
il tuo viaggio
coraggioso,
che sia dritto
e semplice.
E che ci sia
nell’oscurità
a brillare per te
un filo di stelle
argentato,
che ci sia
la speranza
di scaldare
le mani
vicino
al tuo fuoco.
Che ci siano
tormente,
nevi,
piogge
e lo scoppiettio
furioso
della fiamma,
e che tu abbia
in futuro
più fortuna
di me.
E che
possa esserci
una possente
e splendida
battaglia
che risuona
nel tuo petto.
Sono felice
per quelli
che forse
sono
in viaggio
con te.
Eppure, nonostante la volgarità, il duende vive. Ci riesce sfidando persino la razionalità scientifica che, quando diventa scientista, nega la bellezza e il duende, come guida alla ricerca del senso della verità. È lunga la lista degli scienziati che nella narrazione della propria esperienza scientifica e delle proprie scoperte hanno richiamato l’esperienza estetica e la bellezza come componenti essenziali del loro lavoro e dei loro risultati. Nei resoconti ufficiali e negli articoli delle riviste specializzate questi aspetti non appaiono mai. Valga per tutti un esempio, quello del premio Nobel Murray Gell-Man. Gell-Man dichiarò in varie occasioni la sua fedeltà al principio platonico dell’intreccio di verità e bellezza; in un discorso informale, per esempio, affermò che la bellezza, la semplicità e l’eleganza sono “un criterio primario per la selezione dell’ipotesi corretta” [G. Johnson, Strange Beauty: Murray Gell-Man and the Revolution in Twentieth-Century Physics, Knopf, New York 1999; p. 239]. Fu proprio nella scoperta del quark che gli valse il premio Nobel, che poté sperimentare il ruolo dell’estetica nella formulazione dell’ipotesi che poi sarebbe riuscito a dimostrare. Allora perché nella rappresentazione pubblica della scienza, alimentata dalla maggior parte degli scienziati, la ragione è l’editto della regola ferrea secondo cui conta solo la verifica empirica? Perché nei pensieri intimi e privati la grazia e la bellezza di una teoria concorrono a convincere della sua verità, ma non si citano mai queste qualità quando si comunica ufficialmente la scienza? Detta in altri termini: perché la barbarie della mortificazione della complessità della conoscenza e della scoperta scientifica con la relativa mortificazione dell’esperienza estetica che ne è parte integrante?
Tra le altre motivazioni se ne possono considerare almeno due. La prima riguarda il modo stesso di intendere la bellezza. In quasi tutte le considerazioni che gli scienziati fanno a proposito del ruolo della bellezza nella loro esperienza, la bellezza è intesa come forma e riguarda gli aspetti formali degli oggetti della ricerca. In tal senso non è difficile comprendere come si giunga a pensare che una simile idea di bellezza possa intervenire o meno nella ricerca e nella scoperta scientifica. A dominare è la barbarie del canone che identifica la bellezza con la sua dimensione formale, storicamente situata. Se per bellezza si giungesse finalmente ad intendere la relazione sensibile che si stabilisce tra il ricercatore e il suo oggetto di ricerca, come si può rilevare in tante storie di scoperta scientifica, allora, forse, non sarebbe difficile riconoscere che l’estetica della relazione con un oggetto di ricerca può estendere il mondo interno e le possibilità di lavoro e scoperta di un ricercatore, per vie che senza quella estetica relazionale non si verificherebbero.
La seconda motivazione che porta a tacere il valore della bellezza nella scienza riguarda, forse, quella che Luigi Pagliarani ha definito la terza angoscia, o della bellezza. Accedere alla bellezza è costoso, così come è impegnativo riconoscere ed elaborare il coinvolgimento estetico che apre la strada alla formulazione di ipotesi originali e generative. Chi si avvicina a quelle dimensioni e avverte o concepisce le possibilità generative, può essere colto da un senso di angoscia rispetto alla possibilità effettiva di riuscita o alla paura del fallimento, fino al punto di giungere a negare quanto prima concepito, depurando così, barbaricamente, la complessità anche estetica della conoscenza scientifica, soprattutto per quanto riguarda la formulazione delle ipotesi. E tutto torna, come scrive Musil, a presentare un’immagine della scienza lineare e perfetta, “come in un mondo di fiabe”.