Contro la barbarie civilizzata

Autore

Paolo Fedrigotti
Paolo Fedrigotti (Rovereto, 1981) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Dante e la filosofia medioevale. Si è specializzato nell’insegnamento secondario presso la Ssis della Libera Università di Bolzano. Ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia presso lo Studio teologico accademico di Trento. Nella stessa città è docente di storia della filosofia e di filosofia della conoscenza ed epistemologia all’Istituto teologico affiliato e all’Istituto di scienze religiose, nonché di filosofia e storia nei licei di Riva del Garda. È membro della Scuola di Anagogia di Bologna e autore di numerosi articoli specialistici e monografie.

NOTE SEMISERIE A MARGINE DI UN SAGGIO DI PIER PAOLO OTTONELLO

Un tempo dei barbari occorreva diffidare, se non avere paura: il termine che anticamente li designava – pur nascendo come un vocabolo privo di connotazioni dispregiative, legato onomatopeicamente al balbettio a cui, secondo gli antichi Ελληνεζ, si riduceva la parlata degli stranieri – rimandava a torme spaventose di soggetti rozzi, privi di cultura, segnati da una naturale inclinazione all’immoralità e da una congenita predisposizione ad assumere comportamenti infidi, sanguinari e inumani. I barbari erano nemici della civiltà e, come tali, andavano combattuti. Oggi pare, invece, che da loro non occorra più guardarsi, che non ci sia nulla di più anacronistico da fare per un mondo permeato dal cosmopolitismo come il nostro, in cui i processi di globalizzazione, riducendo o azzerando spazi e tempi, hanno determinato – e continuano a determinare – un livellamento delle visioni del mondo, degli stili di vita, dei gusti e delle fedi. C’è tra noi chi ritiene addirittura che i barbari non solo non esistano più, ma non possano neppure più esistere. In realtà essi esistono, eccome: vivono al nostro fianco e popolano i luoghi che frequentiamo quotidianamente. Sono molto difficili da individuare – questo è certo – dal momento che non vestono, non si esprimono né si palesano come i barbari di un tempo, adottando uno stile sofisticato e apparentemente inoffensivo. A smascherarli è – come osserva Pier Paolo Ottonello in un suo interessante saggio il loro modo di indeterminare differenze e rapporti tra enti e situazioni, rendendoli oscillanti, confusi e, in ultima istanza, insensati: il loro rifarsi, cioè, ad un relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che concepisce come propria misura solo l’io e le sue voglie1 e la loro tendenza a balbettare il mondo fino all’afasia autodistruttiva2 e ad indifferenziare bene e male, giusto ed ingiusto, bello e brutto, provocando soltanto deformazioni e disarmonia. 

Tale tipo di barbarie è, a ben vedere, molto più pericoloso di quello antico e va osteggiato con tutte le nostre energie per non permettergli di distruggere da dentro la società in cui siamo inseriti. Dove si radica la sua potenza? Senza dubbio nel fatto di essere una barbarie civilizzata. Se – assecondando Ottonello e la sua riflessione – assumiamo che civiltà sia l’accrescimento degli strumenti in ordine ai fini essenziali e il perfezionamento della determinazione dei fini e del loro ordine metafisico attraverso gli strumenti (la cui condizione e la cui conseguenza è l’arricchimento incessante dell’intelligenza e della volontà nella loro costitutiva armonia) e che civilizzazione sia l’accrescimento degli strumenti non in ordine ai fini essenziali, ma a quelli inessenziali o in ordine al fine dell’accrescimento degli strumenti stessi, è chiaro che civiltà sia il combattimento incessante contro ogni barbarie ovvero contro ogni forma di civilizzazione quale lettura erronea o parziale dell’ordine metafisico e quale rapporto disordinato tra mezzi e fini.

Se dovessimo elaborare una fenomenologia della barbarie civilizzata – utile nel caso in cui dovessimo identificarla per poi provare a sbugiardarne i contenuti – non potremmo che soffermarci sulle due dinamiche fondamentali mediante cui essa si esprime più frequentemente: da un lato, il suo orrore per il Fondamento (declinabile attraverso la difesa strenua dell’idea una e bina che l’essere delle cose non abbia direzione e scopo e che esso non abbia valore intrinseco); dall’altro, la sua dialettica di riduzione del reale. 

La prima modalità espressiva della barbarie civilizzata prende corpo, appunto, nel suo rigetto del Fondamento, disprezzato, trascurato e, da ultimo, ignorato. Il suo è nichilismo allo stato puro: rinnegare ciò che è strutturale – l’assolutezza del fine ultimo, la perfezione dell’Intero dell’essere, lo splendore sommo dell’attuazione intera di tutte le potenze o possibilità presenti negli enti che esistono per partecipazione e, insieme, l’autonegazione stabile di tutte le negatività – significa misconoscere il fatto che tutte le cose abbiano un orientamento anagogico ben preciso3. Tendendo poi a confondere i fini intermedi con il fine ultimo e i mezzi con i fini (nessuno strumento e nessun mezzo – si badi – hanno significato se non in rapporto al fine assoluto) e condizionando pesantemente la sfera esistenziale e l’orizzonte socio/politico dell’uomo postmoderno, ridotto ad un sonnambulo che vaga verso il caos4, la barbarie civilizzata si pone come realizzazione storica di quanto prospettato, a suo tempo, da Nietzsche.

«Non è lecito interpretare – scrive il filosofo tedesco nei suoi Frammenti postumi – il carattere generale dell’esistenza né col concetto di fine, né col concetto di unità, né col concetto di verità»5.

Assumendo contraddittoriamente questo postulato come vero e reputando che tanto la realtà (nel suo complesso) quanto le differenti realtà (nel loro specifico) non posseggano alcun valore se non quello mutevole, deciso dal soggetto in rapporto ai suoi scopi e all’estrinsecazione della sua volontà di potenza, la barbarie civilizzata si manifesta pure – come prima anticipato – quale riduzionismo e ingannevole mistificazione del reale: attraverso il suo filtro, la varietà infinita degli esseri viene presentata come caotica pluriformità e la catena indefinita delle riduzioni e simulazioni contrae il mondo stesso, la società e le virtù umane trasformandoli in palcoscenico e spettacolo totale, immiserendo – come in una sorta di interminabile quanto avvilente rosario parodiante (che comunque dà a riflettere) – l’universale al generico, il sintetico al confuso, il pensante al calcolante, l’ordinato all’organizzato, il libero all’anarchico, l’edificante all’edulcorante, il rigoroso al rigorista, il critico al distruttivo, il contemplativo all’inerte, il classico al tradizionalista, il diagnosta al pessimista, il legale all’opportuno, l’imparziale all’impolitico, l’antisettario all’antipolitico, il solitario al single, l’autorevole al sopraffatore, il forte al violento, il coraggioso al ribelle, l’eroico all’azzardato, il prudente all’esitante, il sobrio all’acido, l’equilibrato al compromissorio, l’elegante al modiero, il bello al piacevole, lo stupido al diverso, il puro all’amorfo, il vizioso allo sperimentante, il sapiente all’enciclopedico, il santo al santone6.L’auspicio è che la lucida individuazione e la conseguente destrutturazione delle forme attraverso cui la barbarie civilizzata si manifesta aiutino l’uomo contemporaneo e, con lui, le democrazie entro cui egli è chiamato a realizzare la sua vocazione di animale politico a focalizzare il problema forse più importante del nostro tempo: il riconoscimento, cioè, della realtà per quello cheè e, inscindibilmente, il riconoscimento dell’altro come di un amico con cui convivere onestamente piuttosto che come di un nemico da abbattere7. Perché questo obiettivo cominci ad essere perseguito è necessario che la politica e la democrazia tornino a guardare all’etica come ad una comune radice di senso e comincino a lavorare e a far lavorare gli uomini non solo per produrre e ottenere insieme a loro il necessario all’esistenza, bensì per puntare a qualcosa che trascenda il mero utilitarismo: d’altronde, se si vuole affrancare il mondo dal primato della ragion strumentale, occorre impegnarsi affinché si mostri con chiarezza che l’essenziale nella vita, oggi come un tempo, sta in ciò che non si può calcolare.

NOTE

  1. Cfr. J. Ratzinger, Omelia Missa pro eligendo Pontifice, 18 aprile 2006
  2. P. P. Ottonello, La barbarie civilizzata, Marsilio, Venezia 1998, p. 55
  3. Cfr. G. Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Cantagalli, Siena 2003, p. 13
  4. Cfr. A. Caraco, Breviario del caos, Adelphi, Milano 1998, p. 62
  5. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-88, 11 [99], Adelphi, Milano 1971, vol. VIII, pp. 256-258
  6. Cfr. P. P. Ottonello, La barbarie civilizzata, pp. 65-66
  7. Cfr. C. Vigna, Vedute. Al seguito di Sofia, Orthotes, Napoli 2024, p. 14
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