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Barbarie?

Autore

Salvatore Tedesco
Salvatore Tedesco è docente di Estetica e Teoria dei linguaggi presso l'Università degli Studi di Palermo

Barbarie: la “seconda carica dello Stato”, di quello italiano, di fronte alla notizia del figlio accusato di stupro, annuncia di averlo interrogato personalmente e di non aver trovato nulla di penalmente rilevante; sempre nello stesso Paese, “il” Presidente del Consiglio, per parte sua, si presenta come “quella stronza di” in una delle numerose occasioni in cui compare pubblicamente in una mise sempre nuova, degna di farla (o farlo) figurare come un eccellente exemplum (ecco, scegliamo il neutro) di alta moda; negli Stati Uniti d’America (il Paese che non ha un nome, secondo l’argomentazione ineccepibile di Jean-Luc Godard in Eloge de l’amour) il più accreditato candidato alla prossima Presidenza ricevendo l’investitura del suo partito promette di esser pronto a dar luogo alla “più grande deportazione della storia”, mentre tale Hulk Hogan, settantunenne wrestler “a riposo” (absit iniuria verbo), si strappa la maglietta fra gli applausi degli astanti (fra i quali lo stesso Candidato, autoproclamatosi sopravvissuto alla morte per unzione divina).

Barbarie? Purtroppo no. La barbarie è una cosa tremendamente seria; detta nel modo più riduttivo, implica che una cultura venga scardinata per effetto del contatto aggressivo con un’altra cultura, con altri valori, con altre etnie; che ne sia misconosciuto il modello di temporalità, i miti fondativi, le immagini che hanno permesso a generazioni di riconoscersi, che ne venga stravolta l’identità. E che da questo sorgano nuovi tempi, nuovi dei, nuove comunità. Fuori dai cardini del proprio tempo, della propria vita, la nuova comunità barbarica apprende a creare nuovi ordini.

Claude Lévi-Strauss parlava in questo senso del pensiero mitico come bricolage, come rielaborazione, riuso di frammenti di storie – decontestualizzate, ricontestualizzate.

Basta rivolgersi un momento in direzione di Walter Benjamin per trovare aiuto nel pensare la barbarie come il tentativo di iniziare dal Nuovo, di farcela con il Poco, e soprattutto come il proposito di prendere sul serio il minuto e fragile corpo umano.

Quella del nostro tempo non è barbarie, se non una mostruosa barbarie autoimmune

Barbarie, nel senso di Benjamin, è creaturalità; fragilità del corpo umano nella storia umana e sua drammatica esposizione al tempo profondo della natura. In cerca di un altro nome la potremmo forse chiamare con Catherine Malabou plasticità, consapevolezza dell’altro e del fuori che chiamano in causa la nostra identità, che la rendono mobile e plastica come Goethe voleva che fosse il pensiero, molteplice e di nuovo fragile.

La barbarie autoimmune del nostro tempo (forse per primo Friedrich Schiller ne ha riconosciuto da lontano la figura) non dice nulla di ciò. La negazione del “cambiamento climatico” come negazione del fatto macroscopico del confronto, dell’interazione fra storia umana e storia profonda della natura; la negazione del virus pandemico come negazione della zoonosi, cioè della trasmissione da animale a uomo; la negazione del carattere plastico dell’identità da parte dei movimenti che assurdamente si definiscono “identitari” sono altrettanti marcatori del processo autoimmune del nostro tempo.

Prendiamo sul serio quel padre che assolve e con ciò richiama a sé il proprio figlio; prendiamo sul serio quel[la] Presidente che fa del proprio abito la propria corazza e allo stesso modo fa sì che il “maschile sovraesteso” dell’uso linguistico relativo al plurale divenga l’arma invincibile del Potere nel momento in cui adesso il maschile viene “autoimposto” e però al singolare come norma della propria femminilità esibita; prendiamo sul serio il proposito di quella più grande deportazione della storia, riassuntivo di tutta la “nuova politica” solo a condizione di includervi quel padre e quella madre (e del resto: yo soy una madre …).

Qui non vi è traccia di barbarie, non vi è traccia di futuro, ma direi non vi è traccia di tempo di vita in generale. È una violenza che nega la creaturalità, la plasticità, il divenire in noi, e che per far questo deve proporsi di cancellare l’altro e il fuori. Il “migrante”, esemplarmente. Proposito vano, per quanto grandi e silenziose possano essere le sparizioni nei naufragi ormai tendenzialmente senza testimoni che avvengono nel Canale di Sicilia. Ma anzitutto proposito vano perché il minuto e fragile corpo umano esposto alla barbarie autoimmune si decompone senza speranza, senza che vi sia più la storia di una violenza, di una fuga, di una salvezza, di un volto perfettamente sconosciuto cui riconoscere vita.

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