Quando, nel 2008, Tzvetan Todorov provò a definire una sorta di cartografia dei sentimenti dominanti nei Paesi dell’Occidente in preda a La paura dei barbari – questo il titolo del suo libro, allora uscito in Francia e l’anno dopo in Italia per Garzanti (pagg. 286) – compose uno schema diviso in quattro sezioni. Nella prima, quelli animati dall’appetito: «La loro popolazione ha spesso la convinzione, per i motivi più diversi, di essere stata esclusa dalla ripartizione delle ricchezze; oggi è venuto il loro turno». Nella seconda i Paesi in cui il ruolo essenziale era giocato dal risentimento: «Questo atteggiamento deriva da un’umiliazione, reale o presunta, che sarebbe stata loro inflitta dai Paesi più ricchi e potenti». Nella terza trovava posto la paura: «Sono i Paesi che costituiscono l’Occidente e che hanno dominato il mondo per molti secoli». Nel quarto gruppo a dominare era l’indecisione: «Un gruppo residuale i cui membri rischiano di farsi dominare un giorno dall’appetito o dal risentimento, ma che per il momento rimangono estranei a questi sentimenti».
Applicando questo impianto interpretativo, da Todorov costruito su un quadro di riferimento evidentemente internazionale e dunque di segno geopolitico, a uno scenario ridotto, per esempio a quello italiano che per molti versi risulterebbe un attendibile paradigma del tutto, si sarebbe ottenuto con nove anni di presago anticipo il dato a cui nel 2017 giunse il Censis con il suo “Rapporto sulla situazione sociale”. Sintetizzato nella marcatura de “L’Italia del rancore”. Cioè, il sentimento che rappresentava il punto di caduta dell’appetito represso e ora vendicativo, del risentimento collettivo e rabbioso, della paura di veder crollare l’equilibrio costituito, dell’indecisione nell’attesa di intrupparsi in qualcuna delle sezioni e quindi prender parte.
Il rancore orizzontale e pervasivo, montante e inarrestabile, trasversale e destabilizzante: quel tratto del carattere nazionale, dell’identità antica, della dimensione costitutiva che Giacomo Leopardi aveva con straordinaria lucidità intercettato nel suo Discorso sullo stato presente dei costumi degl’Italiani del 1824. La crisi di Tangentopoli nel 1993, la denuncia dei fatti e dei misfatti della cosiddetta Casta nel 2007, il blocco della mobilità – nell’analisi del Censis – che impediva di distribuire il dividendo sociale della ripresa economica nel 2017 avevano scandito le tappe dell’affermazione pressoché dell’Italia rancorosa, celebrando il protagonismo assoluto del nuovo e antico soggetto antropologico e politico: la gente.
Se Guglielmo Giannini e il suo Uomo Qualunque, il movimento nato nell’immediato dopoguerra, antesignano dello sberleffo contro le istituzioni democratiche e dell’antipolitica pronta alla convenienza del momento, avevano elaborato una esperienza storica probabilmente non sufficientemente compresa; se la Lega di Umberto Bossi aveva recuperato i detriti della fine della Repubblica dei partiti in direzione separatista; se dunque i fermenti disordinati di fenomeni del genere non si erano mai spenti ma soltanto tenuti a bada nella pentola a pressione della Democrazia cristiana, ecco che tutto è andato a esplodere. Il mondo si è mosso in questo senso, dal trumpismo statunitense alla scelta della Brexit in Inghilterra. Populismo 2.0 l’avrebbe denominato Marco Revelli nel suo saggio pubblicato lo stesso anno (Einaudi, pagg. 155, euro 12), approdo di una riflessione avviata proprio a partire dal trauma registrato con la fine dei partiti tradizionali e delle forme organizzate della politica. Tutti gli ismi della modernità – liberalismo, socialismo, comunismo, fascismo – nei quali ci si era riconosciuti per appartenenza o per contrapposizione svanivano sotto i colpi di «un’entità più impalpabile e meno identificabile entro precisi confini e involucri»: uno stato d’animo, un mood, «la forma informe che assumono il disagio e i conati di protesta nelle società sfarinate e lavorate dalla globalizzazione e dalla finanza totale – da ciò che Luciano Gallino ha chiamato il “finanzcapitalismo”- nell’epoca dell’assenza di voce e di organizzazione».
Le comunità fragili reagiscono così agli urti del tempo. Quando la politica manifesta in queste torsioni della storia la sua debolezza costitutiva, quando i grandi movimenti svaporano e i livelli di rappresentanza prima perdono autorevolezza e poi sono travolti, è la gente a occupare la scena. Senza intermediazioni di alcun tipo, con i suoi modi e il suo linguaggio. Leonardo Bianchi, ne La gente. Viaggio nell’Italia del risentimento (Minimum fax, pagg. 365), ha consegnato sette anni fa ampia documentazione al riguardo. Oggi si potrebbe aggiornare il reportage narrativo aggiungendo un ampio capitolo dove si verifica come la sua rabbia, la sua voce, i suoi comportamenti abbiano finito per conquistarsi la scena e occupati i luoghi del governo.
Il linguaggio della politica, così, è il linguaggio della gente. Saltate le intermediazioni, sabotati i livelli di controllo, vanificati gli stadi di verifica, il gradimento del popolo diventa l’unico riferimento di giudizio. Il dibattito – per così dire – assume i toni e le modalità di una contesa senza conflitto, di una competizione quotidiana svolta attraverso tutti gli strumenti della comunicazione digitale. L’informazione è ridotta a teatro di guerra a colpi di enunciazioni banali, vuote, serializzate dagli interventi delle catene di comando: scivola sulle questioni e sui problemi reali, non ne tocca la sostanza, manipola ogni dato ai fini di una interminabile azione di propaganda. Ha avuto ragione Karl Kraus, il quale spiegava che la barbarie linguistica è a un tempo sintomo e strumento della barbarie politica e sociale. In attesa del termine della notte.