Apparentemente semplice, la struttura fisiologica dell’occhio umano comporta un livello di complessità straordinario nella modalità di passaggio dal mondo esterno alla percezione mentale delle immagini: conosciamo cosa accade sulla superficie della retina e come le immagini si formino e si proiettino all’interno attraverso il sistema dei recettori, passando da impulsi luminosi a impulsi nervosi, ma come la mente riesca poi a rielaborare tutto questo, rimane ancora per molti aspetti un campo di ricerca affascinante e in continua evoluzione. Semplicità e complessità sembrano sposarsi alla perfezione in uno dei gesti più normali e quotidiani che l’umanità compie abitualmente: il vedere. Come per ogni realtà sensoriale, anche nella vista, il peso della rielaborazione mentale costituisce una parte preponderante nell’efficacia dell’intera operazione. Possiamo dire che, in fondo, vediamo davvero attraverso gli occhi ma soltanto con la mente.
La tendenza a semplificare e ridurre tutto a schemi per facilitare la comprensione e l’apprendimento, ci abitua, fin da piccoli, a cercare la semplicità come risposta che si contrappone alle realtà complesse: quello che dovrebbe essere soltanto uno strumento per facilitare l’approccio al reale, finisce per diventare un modo per interpretarlo: dove la complessità sembra essere ingestibile, l’unica soluzione possibile pare essere quella di procedere a semplificazioni forzate che, in definitiva, ci portano soltanto a ridurre il reale a ciò che noi vogliamo o possiamo comprendere. Sappiamo, però, che le interazioni che ci circondano mettono in comunicazione sistemi complessi, i quali rimangono tali, anche quando ci sforziamo di immaginarli diversamente. Il problema, allora, non sta in quello che vediamo ma in come vediamo.
Di fronte a una realtà, soprattutto sociale, sempre più complessa e articolata non sembra particolarmente saggio pensare di risolvere i problemi affermando che le cose dovrebbero funzionare in maniera diversa: quello che deve davvero cambiare per attivare processi di trasformazione reali è lo sguardo di partenza di fronte alla realtà.
Non uno sguardo che semplifica, ma uno sguardo semplice capace di stare con serenità e giustizia davanti a realtà complesse che per essere capite hanno bisogno di essere rielaborate da menti e spiriti capaci di articolare legami e produrre dinamiche relazionali. Un occhio buono e luminoso porta a vedere le giuste misure tra le cose e le persone: crea le condizioni necessarie per generare il giusto spazio interiore capace di ospitare perfino le situazioni più intricate.
Come ci insegnano i meccanismi dell’ottica e della visione, non abbiamo bisogno di risolvere la complessità in favore della semplicità, abbiamo invece bisogno di tenere insieme la semplicità come via di accesso alla comprensione più vera e profonda della complessità.
Guadagnare a noi stessi la possibilità di uno sguardo semplice sul mondo significa liberarci dalle pretese di controllo su quello che ci circonda; vuol dire liberarsi dall’idea che il fuori debba corrispondere alle semplificazioni che ci portiamo dentro e iniziare davvero a stare con attenzione e rispetto di fronte a ciò che ci circonda.
L’esercizio di dominio sulla realtà del creato, suggerito all’inizio del libro della Genesi, non chiede la semplificazione di quello che è stato previsto complesso, vario e articolato. Chiede piuttosto la capacità di farsi semplici fruitori di una grazia che va accolta, senza particolari meriti, per diventare umili amministratori: solo con questa consapevolezza si è in grado di ritornare a quella semplicità di vita che ci rende ingranaggi indispensabili al funzionamento della complessa macchina del mondo, magari diventandone anche i più giusti e degni interpreti.
Come la produzione di immagini complesse chiede la presenza di un occhio semplice e buono, così il mondo complesso e articolato chiede uomini semplici e buoni per diventare davvero luogo ospitale e da tutti abitabile.