«La maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici.
Meglio: non sono riducibili alla semplicità che piacerebbe a noi».
Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986.
Ogni volta che possiamo, semplifichiamo la realtà. Non scegliamo di farlo. Possiamo farlo per dialogare con essa e comprenderla o per ridurla e mortificarne la complessità. Sì, perché il semplice è complesso. Come è una goccia d’acqua, con la sua ricchezza e la sua meraviglia.
Nei Diari, Franz Kafka, scrive che per lui la letteratura è l’“assalto al limite”. La realtà ci resiste. Quella resistenza provoca ed alimenta il nostro antagonismo riduzionista. Evidenziando i nostri limiti, il mondo ci fa paura con la sua abbondanza. Possiamo “assaltarlo” per tentare, invano, di dominarlo. E forse, proprio perché è vano, quel tentativo diviene reiterato e distruttivo. O possiamo “assaltarlo” per risuonare esteticamente con il limite, traducendo la risonanza in poiesis, in relazioni, narrazioni e azioni amichevoli col mondo. Come si sente ascoltando Andrea Zanzotto, Al Mondo:
Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente,
fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
ed ecco che io ribaltavo eludevo
e ogni inclusione era fattiva
non meno che ogni esclusione;
su bravo, esisti,
non accartocciarti in te stesso in me stesso.
Io pensavo che il mondo così concepito
con questo super-cadere super-morire
il mondo così fatturato
fosse soltanto un io male sbozzolato
fossi io indigesto male fantasticante
male fantasticato mal pagato
e non tu, bello, non tu «santo» e «santificato»
un po’ più in là, da lato, da lato.
Fa’ di (ex-de-ob etc.)-sistere
e oltre tutte le preposizioni note e ignote,
abbi qualche chance,
fa’ buonamente un po’;
il congegno abbia gioco.
Su, bello, su. Su, Münchhausen.
O come suggerisce Primo Levi: «Ciò che comunemente intendiamo per “comprendere” coincide con “semplificare”: senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema: a questo scopo tendono i mirabili strumenti che ci siamo costruiti nel corso dell’evoluzione e che sono specifici del genere umano, il linguaggio ed il pensiero concettuale.
Tendiamo a semplificare anche la storia; ma non sempre lo schema entro cui si ordinano i fatti è individuabile in modo univoco, e può dunque accadere che storici diversi comprendano e costruiscano la storia in modi fra loro incompatibili; tuttavia, è talmente forte in noi, forse per ragioni che risalgono alle nostre origini di animali sociali, l’esigenza di dividere il campo fra “noi” e “loro”, che questo schema, la bipartizione amico-nemico, prevale su tutti gli altri. La storia popolare, ed anche la storia quale viene tradizionalmente insegnata nelle scuole, risente di questa tendenza manichea che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro, gli ateniesi e gli spartani, i romani e i cartaginesi. Certo è questo il motivo dell’enorme popolarità degli sport spettacolari, come il calcio, il baseball e il pugilato, in cui i contendenti sono due squadre o due individui, ben distinti e identificabili, e alla fine della partita ci saranno gli sconfitti e i vincitori. Se il risultato è di parità, lo spettatore si sente defraudato e deluso: a livello più o meno inconscio, voleva i vincitori ed i perdenti, e li identificava rispettivamente con i buoni e i cattivi, poiché sono i buoni che devono avere la meglio, se no il mondo sarebbe sovvertito.
Questo desiderio di semplificazione è giustificato, la semplificazione non sempre lo è. È un’ipotesi di lavoro, utile in quanto sia riconosciuta come tale e non scambiata per la realtà; la maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o non semplici della semplicità che piacerebbe a noi». [Primo Levi, La zona grigia, Einaudi, Torino 1986].
Ascoltare ed elaborare il desiderio di semplificazione senza ridurre la complessità di ogni cosa alla semplificazione apre alla possibilità di una relazione estetica con gli altri e il mondo.
Del resto ogni opera, e l’opera d’arte in particolare, – ma vale per ogni realtà –, è un processo: non è un fatto, men che meno un oggetto. È il risultato di una ricerca che prende senso dalla relazione di ascolto e dialogo con la semplicità naturale delle cose, degli altri, del mondo. Con quella semplicità che deriva dal fatto che semplicemente esistono.
Come, infine, propone Joseph Conrad nella Nota dell’autore, all’inizio de La linea d’ombra:
«…tutta la mia persona intellettuale e morale è penetrata da una convinzione invincibile che qualsiasi cosa cada sotto il dominio dei nostri sensi è di necessità in natura e, per straordinario che sia, non può differire essenzialmente da ogni altra proprietà di quel mondo visibile e tangibile di cui noi siamo parte consapevole. Il mondo dei vivi contiene abbastanza meraviglie e misteri così com’è: meraviglie e misteri che agiscono tanto inesplicabilmente sulle nostre emozioni e sulla nostra intelligenza da giustificar quasi chi concepisce la vita come uno stato d’incanto». [Joseph Conrad, The Shadow-Line, The Metropolitan Magazine, New York 1916].