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Il dono delle piccole cose

Autore

Patrizia Patelli
Ha studiato Lettere moderne a Roma e Scienze della Comunicazione a Verona. Dopo il Master biennale Holden in Tecniche di narrazione, ha attraversato i mestieri della scrittura. Dalla drammaturgia al racconto e romanzo, passando per il cinema e il linguaggio pubblicitario, oggi vive in Trentino e si occupa di comunicazione digitale. Ha pubblicato manuali e romanzi. Ama le parole, incondizionatamente.

Chi mi conosce lo sa. C’è un racconto che amo. “Piccole cose” di Raymond Carver, e Gordon Lish, il suo editor, leggi: co-autore. 

Di mestiere scrivo. Anzi, lo dico meglio, uso parole per comunicare. Per rendere, cioè, comune, e comprensibile, a qualcuno, leggi: la maggior parte delle persone, un messaggio, quello che devo, voglio, posso far arrivare.

Le parole che comunicano, e che uso, prese ognuna per sé e poi insieme, hanno bisogno di essere semplici, chiare, cristalline, di bastare a se stesse, senza troppe ulteriori connotazioni. Ogni aggettivo o specifica aggiuntiva restituisce il senso di una parola non centrata, nel suo contesto. Leggi: la poca fatica fatta per compiere il mio mestiere. Per riuscire a scegliere la parola più semplice, ho bisogno di conoscerne tante. Così come per riuscire a comunicare, con la minor sequenza passibile di connotazioni, devo conoscere tanto del mio messaggio, di ciò che voglio comunicare. Per scegliere solo ciò che ritengo utile al mio scopo.

Per ora, tutto questo teniamolo lì. 

Nel cuore delle piccole cose

Parole semplici, dicevo. In un’era in cui pare che le parole non siano più in grado di denotare le cose del nostro mondo perché troppe sono diventate per essere comprese, fissate e controllate, accanirsi a utilizzare la categoria della semplicità riferita alla parola parrebbe un ossimoro. E se fosse invece una salvezza?

Togliamo un po’ di polvere e torniamo alle origini di chi per primo ha avuto necessità di nominare le cose al solo scopo di renderle comprensibili, e condivisibili con il maggior numero di persone possibile. Semplice, che nel tempo abbiamo declassato ai gradi più bassi di qualsiasi scala di valore per qualsivoglia piramide concettuale e fattuale perché ci siamo illusi che aggiungere fosse meglio che preservare, che la confezione potesse sostituire la bontà della merce, che il corpo potesse sostituire l’anima e che confondere fosse meglio che educare, è, invece, parola potente e straordinaria. Semplice contiene nel suo seme sem – uno solo – e plec da plectĕre – piegato -, quindi piegato una sola volta. Semplice protegge il cuore delle cose, qualcosa da scartare e continuare ad aprire fino ad arrivare al nocciolo, a quel momento magico in cui dopo aver attraversato selve oscure a cavallo del bosco o della vita, ti trovi sulla soglia di Aladino e con le mani tremanti e il cuore pazzo di emozione, raggiungi ciò che ti mette nel bel mezzo di una verità. Il filo da disbrogliare, per continuare a citare Montale, l’anello che non tiene, molla la presa e libera nuove connessioni. Quelle che temiamo nella convinzione che possano spezzare le nostre certezze, far crollare castelli di sabbia. E, quindi, finalmente raggiungano lo scopo di far passare un messaggio come fosse nuovo. E, infine, comunichino. 

Ci siamo divertiti a fare capriole, a dipingerci sempre più grandi, stupire col superfluo per uscire da ogni stato di necessità. Ciascuna epoca ha il suo racconto e ha bisogno di un’appropriata narrazione. A me sembra che, come in ogni periodo di transizione, siamo rimasti confusi e abbiamo perso la strada. Non sappiamo più come rallentare per accorgerci dei cartelli e dei segnali che pure esistono per via. 

Ecco che, allora, tornare a fidarci e affidarci alle parole, non stancarci di disfare le pieghe, pulire e continuare ad aprire, e aprirci, forzare le curve più dure, spostare massi, polvere, rumori e mattoni, ci riporta esattamente là dove come esseri umani, semplici, siamo, insieme, uguali e tutti diversi nella ricchezza e straordinarietà delle differenze delle nostre identità. 

Ecco perché amo le parole semplici, che bastano a se stesse. Perché sono le più sudate, quelle che arrivano alla fine di una fatica, di una ricerca, di una scelta di studio e conoscenza. Quelle che svelano, che non ingannano.

Qualcosa che ha a che fare con le piccole cose, un’origine, un dono.

Sfilare, levare, comunicare, comprendere.

Storytelling delle piccole cose

«Sfila via i fatti dalla realtà, ciò che resta è storytelling». Ci ha messo anni la scuola di Alessandro Baricco a dispiegare il concetto e arrivare a un cuore. Abbiamo veramente compreso? Capito che, nel cuore, molte storie si assomigliano e che per raccontare, narrare, e comunicare, non ci bastano i primi fatti che ci sovvengono alla mente. Dobbiamo aprire, trovare il senso profondo del messaggio che vogliamo portare, e allora i fatti con i quali sceglieremo di riempire, per rendere efficace, la nostra narrazione, saranno quelli che terranno in piedi il cuore della nostra narrazione. Un lavoro profondo che trasforma l’intuito in mestiere.

Esattamente ciò che accade in Piccole cose, e torno all’inizio della mia breve dissertazione. Carver racconta una storia grande, potente che nella sua drammaticità riguarda il cuore di tutti. La fine di un amore, di una relazione o, più, semplicemente, il dramma di ogni fine. Questo è il messaggio di ciò che vuole farci arrivare. E allora sceglie. Sceglie un fatto che scompone in una piccola sequenza di atti che racconta incatenando semplici parole. Sceglie ciò che gli appare più efficace, tra ciò che immagina o conosce. Pulisce da ogni connotazione. E, così, arriva all’ultima piega, quella che ci tiene lì davanti, a un anello che non tiene e ci porta su una soglia. Ci fa comprendere che la semplicità è un ultimo nodo da disbrogliare.

Siamo pieni, siamo carichi e bombardati di parole. Parole connotative che dicono poco, ci portano lontano, troppo lontano anche da ogni immaginazione. Possiamo levare, scartare e nella non paura di essere meno, poco, semplici, salvarci e ricominciare a dare nomi alla realtà e alla nostra più leale immaginazione. 

BIBLIOGRAFIA

Eugenio Montale, I limoni, da Ossi di Seppia, 1925

Raymond Carver, Piccole cose, dalla raccolta Da dove sto chiamando, 1988

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