Se cooperazione diventa complicità

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Gianpaolo Carbonetto
Gianpaolo Carbonetto è giornalista e responsabile di programmi culturali e di formazione, studioso dei fenomeni più rilevanti della cultura e della democrazia.

Ammesso che negli ultimi decenni qualcuno avesse ancora una visione manichea di un mondo in cui si potrebbe separare nettamente il buono dal cattivo, il bello dal brutto, il vero dal falso, il bianco dal nero, ci ha pensato quella che ci ostiniamo a chiamare politica a spazzare via i residui di questa illusione dimostrandoci con i fatti che gli estremi sono rari, mentre esistono infinite sfumature, anche se le più frequenti sembrano quelle che ci lasciano rabbia, o amarezza.

Un esempio per tutti può essere il concetto di cooperazione. Quelli della mia generazione portano ancora con sé l’immagine protettiva e solidaristica delle vecchie Cooperative Operaie, nate per aiutare coloro che stavano peggio con un’azione comune, a fini mutualistici e non speculativi, da parte degli appartenenti a una categoria sociale unitisi in cooperativa, appunto, per raggiungere un fine comune di produzione, consumo e credito; per risparmiare eliminando soprattutto il ricorso a più o meno costosi intermediari.

Poi le Cooperative Operaie sono diventate semplicemente Coop, e non ci abbiamo fatto molto caso, in parte perché la contrazione del nome rientrava nei canoni del modernismo imperante ed era più facilmente utilizzabile dalla pubblicità, in parte in quanto la sparizione di quel termine “Operaie” non infastidiva nessuno poiché ormai considerato un po’ avvilente, un po’ fuori dalla storia. Inoltre la sostanza non è cambiata di molto e questo è dimostrato dal fatto che oggi ai vertici di questa organizzazione c’è Maura Latini, una donna che da cassiera è salita di ruolo fino a diventare amministratrice delegata e oggi presidentessa.

Però, a far addensare nubi scure sul concetto di cooperazione ci si è messa la politica, soprattutto quando al sostantivo di cui parliamo ha aggiunto l’aggettivo “internazionale”. A prima vista poteva sembrare un’ottima cosa, ma in realtà, non sempre lo è stato; anzi, spesso è successo il contrario, tanto da far pensare che il termine più giusto da usare sarebbe stato “collusione”, o “complicità”, sempre con appiccicata la specificazione di “internazionale”.

Da noi a essere i protagonisti di questa trasformazione oscura sono stati molti dei ministri degli Interni che si sono succeduti in questi ultimi periodi: soprattutto Minniti, Salvini e Piantedosi, ma con collaborazioni non trascurabili, almeno per ignavia, da parte di Alfano e Lamorgese. E, ovviamente, con l’assenso dei rispettivi presidenti del consiglio. Berlusconi, Renzi, Gentiloni, Conte, Draghi e Meloni.

Perché purtroppo le collaborazioni internazionali alle quali siamo abituati non sono quasi mai quelle che si propongono, per esempio, di scavare pozzi d’acqua nel Sahel, o di spianare la strada a organizzazioni come Medici senza frontiere, o Emergency, o, ancora, di aiutare l’istruzione in Paesi poveri e arretrati, ma quasi sempre sono quelle rappresentate dagli accordi con Paesi come Libia, Tunisia, o Turchia, in cui l’Italia dà ai rispettivi governi grandi quantità di denaro, o più spesso di armamenti, in cambio della garanzia che i profughi e i migranti che passano dalle loro parti siano internati in campi di concentramento per impedire loro di intraprendere un viaggio della speranza – spesso purtroppo vana – verso quell’illusorio paradiso che è l’Italia. 

Responsabilità nostra? Dicono di no perché mica sanno – e a loro neppure interessa – quali mezzi in quei Paesi usano per “dissuadere” i migranti dal continuare a essere tali. L’importante è che li blocchino e se per fare questo li privano della libertà, li derubano, li violentano, li uccidono, la responsabilità è soltanto loro. Noi ci mettiamo esclusivamente dei soldi che, tra l’altro, sono pubblici.

Ma, in realtà, ci mettiamo anche una forte dose di ipocrisia, perché sappiamo benissimo cosa succede nelle prigioni di quei Paesi e non solo ci giriamo dall’altra parte, ma, anzi, adesso cerchiamo di allargare le cosiddette “cooperazioni internazionali” pagando (e molto profumatamente) l’Albania non più per bloccare i migranti, ma addirittura per imprigionare quelli che da noi sono arrivati, ma che ci disturba molto ospitare, anche se tra mura e sbarre.

Dite che dovrei usare la terza e non la prima persona plurale nell’uso dei verbi? Io credo di no perché in una democrazia le colpe degli eletti non possono non estendersi agli elettori; sia a coloro che li hanno votati, sia a quelli che, con il loro voto e la loro attività politica, non sono riusciti a impedirlo. Ma questo è un discorso già fatto molte volte e mi sembra molto più utile soffermarci sulle conseguenze che simili comportamenti provocano soprattutto più in là dell’immediato.

Perché, se in base ai fatti accaduti in questi anni, pensassimo che la realtà delle cooperazioni è infida, e quindi da eliminare, sbaglieremmo perché, in realtà, un certo uso delle parole non descrive esattamente la lingua italiana, ma soltanto i comportamenti linguistici degli italiani. E, quindi, dovremmo renderci conto che non è il concetto di cooperazione a dover essere messo sotto accusa, bensì è l’uso della parola a salire sul banco degli imputati perché truffaldino, come fraudolento è chi la pronuncia per addolcire realtà altrimenti indigeribili.

Prima dicevo che sarebbe più giusto che questi accordi contro i migranti fossero chiamati “collusioni internazionali”, in quanto dall’etimologia di questa parola fa capolino la stessa radice dell’illudere chi guarda un po’ distrattamente, del tradire la fiducia dei cittadini che non vorrebbero vedere e accettare attività illegittime e anticostituzionali.

E probabilmente ancora più vicino alla realtà sarebbe parlare di connivenza e complicità perché in questi tipi di cooperazione si tolgono diritti, se non ancora molto di più, ai più deboli, agli ultimi, a quelli che si mettono in viaggio per sopravvivere, o, almeno per sfuggire a realtà nelle quali la sopravvivenza è un azzardo quotidiano.

Dal punto di vista della democrazia italiana, il problema più acuto è che alla lunga l’impressione della truffa rimane e non può non portare al cinismo e alla sfiducia nel concetto di cooperazione. Perché, in definitiva, l’imbrogliare con le parole crea danni molto più diffusi, e comunque gravi, rispetto a quelli provocati direttamente dall’azione che si tenta di dissimulare, in quanto il risultato inevitabile è la sfiducia nelle istituzioni, nelle regole, nella partecipazione ai processi democratici tra i quali quello visibilmente più colpito è il voto che a sempre più persone appare come un rito inutile in quanto l’azione politica diventa sempre meno democratica e sempre più oligarchica, se non addirittura monocratica.

E poi recuperare il valore della parola “cooperazione”, ormai scientemente guastata e corrotta non sarà assolutamente facile perché la puzza di truffa e di marcio rimane a lungo ad ammorbare l’aria. Forse sarebbe più semplice sostituirla del tutto, magari ricorrendo al sostantivo “collaborazione” che già in partenza ci appare più nobile in quanto etimologicamente si collega a “labor che in latino significa lavoro, ma anche, se non soprattutto, fatica che è sicuramente l’antitesi della truffa in cui si punta a un risultato evitando accuratamente di farsi coinvolgere direttamente in azioni impegnative e sporche.

Facendo così si corre il rischio di lasciar rovinare anche il concetto di collaborazione? Può darsi, ma, come sempre, dipende da noi smascherare a gran voce il truffatore prima che riesca a far corrompere ancora una volta per tutti il vero significato di una parola.

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