DA LECCO A CASERTA, GLI ESEMPI DI CHI SCEGLIE DI IMPEGNARSI PER LA LEGALITÀ E L’ECONOMIA CIVILE
Intervista a Giuliano Ciano, impegnato per un’economia civile sui terreni confiscati alla camorra, presidente della Cooperativa “Un Fiore Per la Vita” e responsabile della Fattoria Sociale “Fuori di Zucca” di Aversa (Caserta)
Riproponiamo l’intervista realizzata dalle studentesse e dagli studenti della classe prima dell’indirizzo Turistico Sportivo di Enaip Lecco, che ha partecipato al concorso indetto da Libera. Un confronto con Giuliano Ciano, cooperatore sociale impegnato per la legalità e l’economia civile, per approfondire il tema della lotta alle mafie e dell’importanza di poter essere liberi di impadronirsi della propria vita. Dalla discussione sorta in classe è scaturita questa intervista che, a nostro avviso, rappresenta una testimonianza importante e al tempo stesso uno stimolo per ciascuno di noi ad assumersi le proprie responsabilità. L’esperienza che ci ha raccontato Giuliano Ciano ci insegna che la rivoluzione più grande è stata quella di ridare potere alle persone: il potere di scegliere, la possibilità di decidere che strada prendere, il diritto ad avere un’alternativa al destino unico, scontato e buio che la camorra, per troppi anni, offriva come unica possibilità. In questo modo si è riusciti a scardinare il monopolio camorrista sulle vite delle persone.
Buongiorno Giuliano e grazie per essersi reso disponibile. Abbiamo elaborato alcune domande con le quali vorremmo avviare un dialogo con lei sulla sua esperienza di vita e di impegno. Iniziamo chiedendole che cos’è la mafia.
Sotto il termine mafia troviamo tutte le organizzazioni criminali che si trovano in Italia. A seconda del territorio di origine e del modo con cui operano prendono nomi diversi: camorra, sacra corona unita, mafia siciliana, mafia nigeriana, ‘ndrangheta. Esistono quindi tanti cartelli che, pur nelle differenze del modus operandi, sono accomunati dalla volontà di perseguire la ricchezza con ogni mezzo e ad ogni costo. Questi criminali sono disposti a qualunque cosa, anche a uccidere, pur di accumulare potere e soldi. I giudici Falcone e Borsellino, uccisi dalla mafia nel 1992, avevano capito che per risalire al potere mafioso bisognava seguire i movimenti di denaro. Le mafie negli anni sono cambiate: dal controllo del territorio, al traffico di droga, alle varie attività illecite a livello nazionale e internazionale. La violenza delle mafie è inaudita. Criminali, come dicevo, animati dalla bramosia di denaro e dal fascino del potere che dimostrano con fatti e atteggiamenti. Esiste infatti anche un linguaggio e uno stile che rappresentano un modo di vivere che affascina: l’ostentazione della ricchezza, il circondarsi di persone adulanti. Questi modi di essere e di fare riescono ad avvicinare nuove leve a questo mondo criminale, consentendo alla mafia di arruolare soldati desiderosi di appartenere a questo mondo, di scalare il potere e accumulare ricchezza, immaginando una sorta di carriera ignorando che, però, è breve e fallimentare: il loro destino, se non finiscono ammazzati, è sempre la galera.
Cosa è la camorra?
La camorra è un’organizzazione criminale di stampo mafioso che opera principalmente nella regione italiana della Campania, specialmente a Napoli e nelle zone circostanti, a lungo dominata dal clan dei casalesi. È coinvolta in varie attività illegali come il traffico di droga, estorsioni, racket, e altri reati. La sua struttura è simile a quella di altre organizzazioni criminali come la mafia siciliana (cosa nostra) e la ‘ndrangheta calabrese.
Le mafie si trovano solo al sud?
I clan, e soprattutto le famiglie mafiose, hanno origine in regioni specifiche del Paese: la mafia in Sicilia, la sacra corona unita in Puglia, la ‘ndrangheta in Calabria, la camorra in Campania. L’errore che va evitato è quello di legare queste organizzazioni criminali alla posizione geografica e, da lì, trarre una banale e pericolosa generalizzazione che estende all’intera popolazione di quella particolare regione la propensione a delinquere o ad affiliarsi alla criminalità organizzata. In altre parole, non si deve mai pensare che un individuo possa essere predisposto a essere mafioso, ‘ndranghetista o camorrista solo perché siciliano, calabrese o campano. La proliferazione della criminalità non è un fatto legato a una città o a un popolo. È certamente frutto di una storia che in tantissimi anni, dall’Unità di Italia a oggi, ha avuto molte evoluzioni. Tra questi cambiamenti c’è sicuramente il fatto che, da oltre trent’anni, le mafie sono presenti con organizzazioni autoctone e persone del posto, in ogni regione di Italia. L’elenco di attività illecite sarebbe lunghissimo così come le interconnessioni tra luoghi e mafie.
Come fanno le mafie a riciclare i soldi che incassano da attività illecite?
I soldi che la mafia incassa dalle auto rubate o dalla droga, ad esempio, sono soldi in nero che non possono essere depositati in banca perché sarebbe impossibile giustificarne la provenienza. Se quei soldi però anziché finire in banca vengono investiti in attività legali come un ristorante, ecco che magicamente diventano parte dell’incasso di una attività legale e, a quel punto, possono anche essere depositati in banca e diventare patrimonio disponibile del mafioso. A quel punto è complicato stabilire la provenienza di quei soldi. Per questo la mafia ha spostato i suoi interessi nelle zone dove ci sono attività, dove c’è ricchezza. In questa fase storica il nord di Italia ha una presenza mafiosa molto importante perché riesce a fare affari con una parte di una certa imprenditoria e finanza. Non è un caso se la Lombardia è la prima regione d’Italia per beni confiscati alla criminalità organizzata. La Lombardia è infatti la regione più ricca e per questo le mafie hanno spostato lì i loro interessi.
È la mafia in giacca e cravatta?
Le mafie ora si sono fatte più furbe, o almeno lo pensano. Hanno costruito o rilevato imprese, sono diventati imprenditori, ripulendo i soldi sporchi e investendoli in attività che sono in zone anche lontane dalle loro terre di origine. È la mafia in giacca e cravatta appunto. Quindi ci capita di andare in pizzerie e ristoranti a mangiare e, senza saperlo, portiamo soldi alla mafia che continua a fare attività illecita mascherandola da attività lecita e legale. Va ricordato che il 30% dell’infiltrazione mafiosa si trova proprio nel mondo dell’imprenditoria. Per questo è fondamentale confiscare i beni alle mafie.
Può spiegare meglio perché si confiscano i beni dei mafiosi?
I beni sono tutte le proprietà e tutte le “cose” che accumuliamo: appartamenti, case, negozi, terreni, beni immobili; ma anche i soldi e i beni mobili. Sono insomma il patrimonio di una persona. Nel caso delle mafie, questi patrimoni derivano da attività illecite, sottratti e accumulati con attività criminose. Non sono stati generati da attività che hanno ricadute positive per la comunità. In Italia c’è una legge che regola la confisca dei beni a chi viene condannato per mafia: al momento dell’arresto, lo Stato, dopo un accertamento fiscale, sequestra i beni del mafioso e, al termine dei tre gradi di giudizio, se il mafioso viene condannato, lo Stato procede con la confisca dei beni che vengono affidati al Comune dove il bene si trova. Il bene, quindi, passa dalle mani del mafioso a quelle dello Stato. Il mafioso “restituisce” alla collettività il maltolto ottenuto dalle sue attività illecite perpetrate ai danni delle comunità, dei territori, dei cittadini.
Che fine fanno questi beni?
Secondo la legge, il Comune deve riaffidare il bene a Cooperative sociali o Associazioni che si impegnano a farlo rivivere, restituendolo alla collettività attraverso attività che hanno fini sociali. Quei beni che una volta rappresentavano il potere della mafia vengono così restituiti alla comunità attraverso una progettazione sociale.
Un po’ quello che fa la NCO che lei ha contribuito a fondare. Ci spiega di cosa si tratta?
Il consorzio NCO è un soggetto del Terzo Settore. Il Consorzio nasce nel 2012 e mette insieme alcune di quelle realtà che si erano aggregate attorno a un modello economico e sociale alternativo al dominio camorrista. In particolare, stiamo parlando di nove cooperative sociali che si occupano di persone, beni confiscati o beni comuni, come noi che qui ad Aversa siamo all’interno dell’ex manicomio. Tutte queste cooperative sono impegnate nell’agricoltura sociale che è il metodo che usiamo per valorizzare le realtà in cui ci troviamo. L’agricoltura sociale è un approccio innovativo atto a valorizzare l’agricoltura, e le attività a essa connesse, con una maggior attenzione all’ambiente e alle persone con fini, anche, terapeutici.
Se non sbagliamo, NCO è un acronimo che in Campania evoca brutti ricordi…
La NCO in Campania è sempre stata la Nuova Camorra Organizzata, organizzazione criminale fondata negli anni Ottanta da Raffaele Cutolo, uno tra i più spietati camorristi. Una sigla, quindi, che evocava terrore. Noi decidemmo, un giorno, di fregare alla camorra anche quella sigla, NCO, facendola diventare Nuova Cooperazione Organizzata, a ribadire il potere dell’ironia e il modello di economia sociale da opporre a quello criminale. Poi è diventata anche Nuova Cucina Organizzata quando abbiamo aperto un ristorante all’interno di quella che una volta era stata la casa di un boss di Casal di Principe. E ancora, Nuova Comunità Organizzata per rappresentare una serie di progetti capaci di aggregare le persone. La lotta alla camorra si fa anche con il linguaggio e per questo diventava importante smontare il loro linguaggio criminale e ridare nuovo significato alle parole. La Nuova Cooperazione Organizzata rappresenta una nuova idea di lotta alla camorra che si fonda sulla cura delle persone e, quindi, del territorio, arrivando a riempire di speranza, futuro, socialità e relazioni quei vuoti che prima erano occupati, abusivamente, dalla criminalità organizzata. Una prospettiva di bene vicendevole capace di costruire una comunità operosa dove ciascuno possa trovare il suo posto e la sua realizzazione, esprimendo l’unicità del proprio talento. Il lavoro e il welfare di prossimità sono le condizioni per l’autonomia, l’integrazione sociale e la cittadinanza attiva. In questo senso NCO ha “infrastrutturato”, attraverso le proprie cooperative, la metodologia del “budget di salute” per praticare inclusione dei soggetti fragili, sostenendo attività di agricoltura sociale per valorizzare il bene pubblico come, ad esempio, i beni confiscati.
Ci può spiegare cos’è il budget di salute?
In Campania, come nel resto di Italia, capimmo che più si tenevano i malati psichiatrici nelle case di cura e più queste ci guadagnavano visto che il posto letto prevede il pagamento di una retta. Questo meccanismo spingeva le strutture a tenere ricoverati, praticamente a vita, i pazienti. Il budget di salute nasce da un’intuizione di Angelo Righetti, medico psichiatra che aveva già collaborato con Franco Basaglia, psichiatra che promosse la chiusura dei manicomi in Italia del quale, quest’anno, festeggiamo il centesimo anno della nascita. Il budget di salute prevede che la persona da assistere cessi di essere “centro di costo” per diventare un soggetto economico attivo. Una misura innovativa che sposta il concetto da spesa improduttiva, appunto un costo per qualcuno e un guadagno per qualcun altro, a investimento sulla persona fragile che, quindi, non viene più vista come l’oggetto a cui destinare interventi passivi di assistenzialismo, che prevedono solo il ricovero, bensì come individuo portatore di valori e produttore di senso. La persona, quindi, non è identificata con la sua diagnosi ma viene considerata nel suo insieme e nella sua dignità. In questo modo si scommette sulla prognosi positiva, cioè sul fatto che queste persone possono guarire. Questo vale anche per coloro che erano istituzionalizzati, cioè ricoverati in strutture di cura, o a forte rischio istituzionalizzazione. Queste persone iniziarono a essere inserite in percorsi lavorativi, per dare loro riconoscimento sociale, ruolo e reddito, valorizzando la persona nella sua dimensione complessiva a partire dai determinanti della salute: lavoro, casa, affettività. Quindi, le risorse che sarebbero andate a finanziare la lunga degenza in strutture di ricovero vengono riconvertite in un processo di cura che ha al centro di ogni interesse la persona e l’ambiente, riattivando la persona stessa.
Ha parlato di determinanti della salute…
Sono ciò che determina la salute delle persone. Una persona per vivere in salute deve avere delle relazioni significative; vivere in un ambiente sano, che non significa solo avere una casa ma poter stare in luoghi tranquilli, felici e salubri; avere un ruolo, inteso non solo come lavoro e reddito che, certamente, è fondamentale, ma vere una motivazione, un posto nella società. Esattamente come voi che, ogni mattina, sapete che dovete andare a scuola. Bene, se ci togliessero le relazioni, la possibilità di vivere in un ambiente sano e felice, il ruolo, probabilmente noi non saremmo più in salute.
Cosa c’entrano i determinanti della salute con le vostre attività?
Questo è il lavoro che facciamo ogni giorno nella nostra Fattoria Sociale: cerchiamo di ricostruire questi fondamenti nella vita di ognuno di noi, provando a individuare il disagio e capire i motivi che ci sono dietro. Ad esempio, chi utilizza la droga ha bisogno di capire il motivo, solo così possiamo aiutarlo a mettere da parte la sostanza e a riprendere in mano la propria vita. Questo aspetto di socialità che viviamo è quello che fanno le Cooperative Sociali ed è quello che fa anche Libera,
Nomi e Numeri contro le mafie. Libera dice che bisogna ricostruire la giustizia che significa lavorare per i diritti delle persone.
Quando abbiamo iniziato a gestire i beni comuni, ad esempio i beni confiscati o gli ex manicomi come nel caso della mia Cooperativa, ci siamo chiesti come potevamo ricostruire tutto ciò, come potevamo ricostruire le relazioni, l’ambiente sano e il ruolo delle persone a partire proprio dagli ultimi, dai fragili e dagli emarginati. Abbiamo provato quindi a tenere insieme lo sguardo di giustizia, da un lato, e il riutilizzo dei beni confiscati dall’altro.
Torniamo alle mafie. Chi combatte la criminalità organizzata?
Certamente le Forze di Polizia e la Magistratura sono impegnate a combattere la mafia. Ma, ricordiamocelo, tutti noi abbiamo un ruolo determinante. Tutti noi siamo la cosiddetta società civile, cioè siamo coloro che con il nostro comportamento e con il nostro modo di pensare, nel nostro piccolo, possiamo prendere decisioni che vanno nella direzione opposta alle logiche mafiose, contribuendo a combattere le mafie e generare cambiamento e cultura.
Perché avete scelto di combattere la camorra?
Quando abbiamo iniziato non abbiamo mai pensato di combattere la camorra. Alla vostra età non sapevo nemmeno cosa fosse. Non ho mai avuto nessuno che, quando frequentavo la scuola, è venuto a raccontarmi e spiegarmi la camorra. Oggi ho 46 anni e la camorra l’ho incontrata direttamente. Ho iniziato a sentire che uccidevano e facevano atti criminali. Ho capito quindi che facevano qualcosa di sbagliato e che erano persone che organizzavano il male a discapito della società civile. Noi non pensavamo tanto a combattere la camorra ma a lottare per i diritti delle persone. Questo sì, l’ho scelto. Così come ho scelto con altri giovani di avviare una cooperativa sociale e lavorare per la giustizia sociale. Nel lavorare con i più deboli, come ad esempio le persone depresse, quelle con difficoltà psichiche, i poveri, i tossicodipendenti o gli alcolizzati, che esistono ovunque, abbiamo iniziato a conoscere e occuparci anche delle loro famiglie. È stato così che abbiamo capito che non potevamo prendere in carico una persona in difficoltà senza prenderci cura della comunità dove questa persona vive e delle sue relazioni. Accogliere una persona che si droga e spiegargli che non deve drogarsi perché fa male ed è sbagliato, che senso ha? Queste cose le sa già, eppure continua ad abusare delle sostanze. Il problema è che questa persona non riesce a tenersi fuori da quei giri e costruirsi un percorso alternativo. Per questo abbiamo pensato fosse utile prendere in carico la sua famiglia e poi, un pezzetto alla volta, la sua comunità. In quella comunità scoprimmo che esisteva anche un qualcosa di malato che si chiamava camorra. E, quindi, ci siamo trovati a organizzare delle risposte culturali: abbiamo iniziato a occupare i beni confiscati, poi a occuparci di chi aveva bisogno di un lavoro, a coltivare terreni, a fare ristorazione, a vendere prodotti. Abbiamo iniziato a organizzare un lavoro a chi veniva da un momento di difficoltà e aveva bisogno di trovare il suo ruolo. Oggi quelle persone hanno recuperato ruolo, affettività, relazioni e sono diventati soci delle nostre cooperative. Vi ricordate quando vi parlavo dei determinanti della salute? Ecco, quelle persone ora stanno bene, sono in salute, sono rifiorite. Non sono più etichettate con la loro patologia o con la loro fragilità ma hanno ritrovato il loro nome: Paolo, Sara, Peppe, sono i responsabili di area della cooperativa. Questa è stata la rivoluzione contro la camorra: organizzare la speranza aiutando le persone in difficoltà a riappropriarsi della loro vita. È stato semplice lottare contro la criminalità organizzata in questo modo. I beni confiscati sono l’esempio di questa rivoluzione: abbiamo catapultato le persone in difficoltà nella creazione di una economia civile e sociale di cui loro sono i protagonisti.
Avete mai avuto paura?
È la domanda più ricorrente. La paura c’è sempre. Sarebbe stupido dire il contrario. Quando delle persone o delle organizzazioni si espongono è normale avere paura. Mentre sul nostro territorio si sparava e si uccideva ancora tutti i giorni, noi abbiamo denunciato e promosso un modo di vivere diverso, provando a scuotere le coscienze. Creammo il Festival dell’Impegno Civile che, all’inizio, era semplicemente aprire alla cittadinanza i beni confiscati per fare festa. Ventitré anni fa, nelle prime date di quel festival, non veniva nessuno. C’eravamo solo noi e la Polizia. Le persone avevano paura. Quella situazione ci fece toccare con mano cosa significasse avere paura: vuol dire non frequentare, non partecipare, non condividere, troncare le relazioni. Iniziammo a chiederci come poter superare tutto questo, consapevoli che la paura non può essere cancellata e, soprattutto, deve essere rispettata. Ci venne l’idea di invitare un testimonial famoso, un artista. Venne Beppe Barra, attore napoletano molto conosciuto e di gran livello, ospite di una festa in un bene confiscato. Fu incredibile, accorsero oltre duemila persone. Duemila persone per la prima volta in un bene confiscato in provincia di Caserta, terra del clan sanguinario dei casalesi. Certo, erano lì per Beppe Barra ma noi non volemmo sprecare l’occasione: salimmo sul palco e dal microfono urlammo che ci trovavamo su un bene confiscato e ci autodenunciammo perché noi quel bene lo avevamo occupato e volevamo gestirlo in memoria di don Peppe Diana. Il fatto di sentirci in mezzo a tante persone ci ha aiutato non tanto a superare la paura ma, quantomeno, a imparare a conviverci.
Come vi sentivate?
Ci ripetevamo, forse per darci forza, che non avrebbero potuto ammazzarci tutti. Essere consapevoli della paura aiuta a essere razionali in ciò che si fa e a prevenire situazioni di pericolo. Iniziammo così ad adottare piccole strategie: se mi esponevo io poi, per un po’, sparivo; toccava quindi a Peppe che prendeva posizione e poi spariva anche lui per lasciare spazio a Simmaco che interveniva nel dibattito pubblico prima di lasciare spazio a Tina e poi ad Alessandra e così via. Strategie che servivano a non personalizzare la nostra lotta, a non identificarla con qualcuno in particolare, dando al movimento una dimensione collettiva senza mai offrire alla camorra un bersaglio preciso. Non abbiamo mai creato l’eroe, appunto la persona singola che combatteva la camorra. Loro hanno sempre fondato tutto sulla logica dell’“io”, sull’egocentrismo, sulla voglia di potere, sull’apparenza; l’antidoto doveva essere il “noi”: noi siamo contro la camorra; noi ci prendiamo cura delle persone e del territorio; noi vogliamo ribaltare la nostra comunità; noi gestiamo i beni confiscati. Questa cosa li ha storditi. Ce lo ha insegnato anche don Luigi Ciotti: la mafia è stata spiazzata su tutti i territori perché non avrebbero mai potuto prendersela con centinaia di ragazze e ragazzi.
È bellissimo sentirti parlare molto della forza del “noi”…
Questo è servito molto e ha ribaltato la storia del nostro territorio. Tutto grazie alla cultura dell’organizzare il “noi”, combattendo l’esperienza negativa dell’io. Sembra banale ma spesso ce lo scordiamo. La mafia ha bisogno di creare il personaggio, il boss, quello che fa paura, quello che gira scortato dai suoi tirapiedi. È l’io violento che incute timore. Invece lo Stato è il “noi”, le Forze dell’Ordine sono il “noi”, il Terzo Settore è il “noi”.
E il territorio come ha reagito?
Se penso al mio territorio e a quello che è stato, ricordo molto il sentimento di paura che c’era con il quale loro sfidavano la comunità interrompendo le relazioni di fiducia tra le persone. Ricordo molti esercenti terrorizzati dal fatto che la camorra chiedeva loro il pizzo che è una sorta di tassa illegale da pagare per poter tenere aperta l’attività. Ricordatevi che quando la camorra chiede il pizzo lo fa con la violenza e le intimidazioni, non manda un messaggio whatsapp. Chi si ribellava e si rifiutava di pagare si ritrovava il negozio, l’azienda, il ristorante incendiati; veniva picchiato o, addirittura ucciso. La paura e il terrore erano quindi molto diffusi. Era normale fosse così. Negli anni abbiamo iniziato a chiederci cosa potessimo fare contro tutto ciò, cosa potevamo fare per invertire la marcia. Ci siamo confrontati molto capendo che l’unica cosa che potevamo fare era intervenire con un modello opposto al loro. All’economia criminale dovevamo rispondere con un’economia sociale.
La vostra iniziativa simbolo, famosa in tutta Italia, è “facciamo un pacco alla camorra”. In cosa consiste?
Nella lotta alle mafie anche i simboli sono importanti e noi decidemmo di aggiungerci un po’ di ironia. Da noi “fare un pacco” significa dare una fregatura. Si racconta che una volta, intorno alla zona della stazione, si potevano comprare degli iPhone a 100 euro. Tu andavi lì, ti facevano vedere il cellulare funzionante e bellissimo. Nel momento in cui pagavi e ti distraevi un attimo, loro sostituivano la scatola in cui avevano riposto il cellulare. Con finto allarmismo, perché ricordiamo che anche comprare qualcosa in questo modo costituisce reato, partiva una sorta di fuggi-fuggi e tu correvi a casa convinto di aver fatto un grande affare ma poi, quando aprivi la scatola, invece del cellulare trovavi una pietra. Ecco, quello è il pacco: ti ho fatto il pacco, ti ho fregato. Allo stesso modo noi eravamo convinti che in tutti quegli anni la camorra ci avesse fatto il pacco, ci avesse fregati tutti. Noi volevamo restituire alla camorra quel pacco, volevamo fregarla! Fu così che inventammo l’iniziativa “Facciamo un pacco alla camorra”, cioè una scatola contenente i prodotti realizzati sui terreni confiscati alla camorra su quelli che una volta erano i loro beni. Uno sberleffo che, ironicamente, dava uno schiaffo alla camorra perché il messaggio era potentissimo! Gli dicevamo, infatti, che le loro case, i loro campi, i loro negozi, stavano producendo una ricchezza giusta; che quelle passate di pomodoro, quelle verdure sott’olio, quelle confetture, fatte da persone fragili o in difficoltà, venivano messe in una scatola e vendute alla società civile, in tutta Italia. Questo è stato il nostro modo di rispondere alle mafie, attraverso quindi la costruzione di un’economia sociale, vero antidoto alla loro economia criminale.
Immaginiamo che un’iniziativa del genere fu dirompente…
Creò un grandissimo clamore. Ma l’onda ormai era partita: eravamo tantissime persone, tante associazioni, tante cooperative sociali, Libera, il Comitato don Peppe Diana. Fu quello il contesto che seppe dare coraggio a chi era costretto a pagare il pizzo e che ora, invece, non si sentiva più solo ed era consapevole di poter, e volere, far parte di quella rete di relazioni, trovando anche la forza di denunciare gli estorsori. Pian piano è nato un movimento culturale fatto di una cultura opposta a quella criminale. Insieme alle Forze dell’Ordine e alla Magistratura, che ci hanno sostenuto, è nato un movimento enorme, vivace, che oggi rappresenta le Terre di don Peppe Diana.
Chi era Don Peppe Diana?
Don Peppe Diana è stato parroco a Casal di Principe, sua città natale, ucciso dalla camorra per il suo impegno antimafia. Era il 19 marzo del 1994, giorno dell’onomastico di don Peppe. Quest’anno abbiamo celebrato il trentesimo del suo omicidio avvenuto sull’altare della Chiesa che, fino a quel giorno, era rimasto un luogo all’interno del quale la camorra non era mai entrata a sparare. Don Peppe ha sempre cercato di aiutare le persone e sottrarle alla morsa della camorra, in un periodo di dominio assoluto del clan dei Casalesi e del boss Francesco Schiavone, detto Sandokan. L’omicidio di Don Diana fece scalpore in tutta Europa. Don Peppe fu ricordato anche da Giovanni Paolo II: “il sacrificio di questo sacerdote, evangelico chicco di grano caduto nella terra, produrrà frutti di piena conversione, di operosa concordia, di solidarietà e di pace”. Da quel sacrificio, infatti, è nato moltissimo di quello che vi sto raccontando. Don Peppe ci aveva insegnato che per organizzare speranza bisogna accogliere gli ultimi.
Che è quello che avete fatto e continuate a fare…
Effettivamente pensare di combattere le mafie con un povero, un fragile, un tossicodipendente, fa sorridere. Sembra una barzelletta. Però abbiamo fatto proprio così! Quando vedemmo, per la prima volta in televisione, don Luigi Ciotti alzare una confezione di pasta, credo in Sicilia, e gridare orgoglioso che quella pasta era stata realizzata su un bene confiscato, ci proponemmo di fare lo stesso: prendere i terreni confiscati, coltivarli e creare lavoro. Iniziammo a fare diverse riunioni che, però, diventarono degli sfogatoi dove ognuno cerva qualcuno a cui addossare le colpe del fatto che da noi quei progetti non fossero ancora avviati. In fondo dare le colpe a qualcun altro è la cosa più facile che esiste e un po’ ti fa sentire a posto con la coscienza. Un po’ come voi quando incolpate i professori dopo aver preso un brutto voto, accusandoli di non aver spiegato bene la lezione, giustificando così il vostro scarso impegno. Capimmo che eravamo noi a doverci interrogare sul perché non coltivavamo i terreni e smettemmo di dare la colpa ad altri, iniziando a prenderci quei terreni, a coltivarli, a produrre le prime passate di pomodoro e le prime confezioni di pasta. Prodotti che divennero simbolo di riscatto e attraverso cui potevamo restituire la vita e il protagonismo a tante persone svantaggiate e anche, guardate un po’, a combattere la camorra.
Ci piacerebbe venirvi a trovare, pensa sia possibile?Vi invito a venire a toccare con mano quello che facciamo per capire come sia possibile costruire oasi di umanità anche nel mezzo del deserto che la camorra aveva provato a creare. A tutte le ragazze e i ragazzi che ci vengono a trovare o che frequentano da noi i campi estivi di Libera, spieghiamo che tutto questo non ha senso se poi non viene riversato nelle vostre comunità, nelle vostre vite, nei vostri territori. Non va vissuto come un racconto passivo o come un film, magari commovente, e una volta finito si esce dal cinema e si torna a casa. Noi siamo ciò che è accaduto in una piccola parte di Italia, nella provincia di Caserta, ma che può succedere anche a pochi metri da voi. Sta a voi essere protagonisti e prendere in mano il vostro futuro!