Secondo Marx, «nella cooperazione pianificata con altri l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa la facoltà della specie». Più recentemente il sociologo Richard Sennett ha pubblicato un libro che significativamente ha per titolo Insieme ed è un’indagine sulla facoltà cooperativa degli uomini esplicitamente influenzata dalle teorie di Amartya Sen e Martha Nussbaum. Sennett sostiene che la facoltà cooperativa degli uomini, nel nostro sistema sociale, non riesce ad esprimersi appieno e in particolare non assicura la piena realizzazione delle capacità emotive e cognitive umane. La società non riesce a realizzare la facoltà cooperativa umana e in secondo luogo tale facoltà si realizza grazie alle capacità emotive e cognitive e viceversa, nel senso che, queste, a loro volta, si realizzano appieno soprattutto nella collaborazione e nella cooperazione. Ma noi viviamo nell’epoca della competition, dell’individualismo e del narcisismo e concepiamo la cooperazione come un mezzo per i nostri fini privati.
Gli studi di Michael Tomasello (Altruisti nati. Perché cooperiamo da piccoli, Bollati Boringhieri, Torino 2010) e dei suoi colleghi hanno riproposto all’attenzione quella facoltà cooperativa che Karl Marx aveva segnalato come caratteristica della specie umana: la cooperazione. La tesi di Tomasello è che gli umani si distinguono dai primati, per esempio dagli scimpanzé, per la loro precoce capacità di cooperare. Facendo esperimenti comparativi fra bambini e cuccioli di scimpanzé, Tomasello e il suo gruppo di ricerca hanno dimostrato che negli umani emergono molto precocemente capacità sociali e cooperative che non si riscontrano negli scimpanzé. Questa differenza potrebbe essere alla base della diversa storia evolutiva delle due specie e aiuterebbe a spiegare la facoltà umana di trasformare il proprio ambiente grazie a un’attività simbolica. La parola chiave è l’intenzionalità condivisa (shared intentionality), che è così definita: «L’intenzionalità condivisa consiste, semplificando al massimo, nella capacità di creare con gli altri intenzioni e impegni congiunti in un’ottica di sforzo cooperativo». L’apprendimento imitativo è comune agli uomini e agli animali, ma gli uomini hanno due facoltà in più:
- l’insegnamento che è una forma di altruismo;
- il conformismo, cioè la tendenza «a imitare altri membri del gruppo al solo scopo di essere come loro».
Secondo Tomasello, la differenza tra le culture degli altri animali e quelle umane consiste nel fatto che le prime si basano sull’imitazione e su altri processi di utilizzo e sfruttamento, mentre quelle umane si fondano anche su processi di cooperazione.
A dire il vero, il gioco, quale è riscontrato nei cuccioli dei mammiferi superiori, possiede già un alto livello di intesa e di cooperazione che va oltre l’imitazione stessa. Il giocare al combattimento dei gattini o delle scimmiette è un complesso insieme di imitazione (un combattimento che non è combattimento) e di cooperazione (basato, come ha rilevato Gregory Bateson, sulla frase non detta: “questo è un gioco” che, evidentemente, è un patto di cooperazione). Tomasello, tuttavia, sottolinea il maggiore grado di complessità della dimensione cooperativa fra gli umani: «L’Homo sapiens si è adattato, a un livello senza precedenti, ad agire e pensare cooperativamente in gruppi culturali e, di fatto, tutte le più straordinarie conquiste cognitive umane – dalle tecnologie complesse ai simboli linguistici e matematici alle più intricate istituzioni sociali – sono il prodotto non di individui che operano da soli, ma di individui che interagiscono».
Tuttavia, riprendendo il recente, bel saggio di Vittorio Gallese e Ugo Morelli (Che cosa vuol dire essere umani, Cortina, Milano 2024), per me essere umani coinvolge i bambini, gli adulti, ma anche le cose quando, da risultati del lavoro umano, diventano merci. I bambini giocano; giocando imparano a stare al posto di un altro; stando al posto di un altro entrano in scena; entrando in scena apprendono a cooperare; cooperando sviluppano la loro natura sociale. Ma la messa in scena non è tuttavia cosa che fanno soltanto gli uomini. Anche gli animali la fanno. E anche gli oggetti, quando diventano merci. È quel che ci dice Karl Marx quando descrive il carattere di feticcio delle merci. Siamo nell’epoca delle Esposizioni Universali. Walter Benjamin, sulla scia di Marx potrà successivamente dire che esse «sono luoghi di pellegrinaggio del feticcio-merce». Le merci che si mostrano alle Esposizioni Universali facendo spettacolo di sé, sono messe in analogia con il mondo della religione. I rituali religiosi sono delle messe in scena del sacro, i rituali delle merci sono invece delle messe in scena del profano, che assume silenziosamente il carattere del sacro. D’altra parte, quando Marx parla di feticismo delle merci, descrive un tavolo il quale, in quanto oggetto d’uso, è legno trasformato dal lavoro. Ma quando entra in scena come merce, «si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare». All’epoca di Marx e di Flaubert (Bouvard e Pécuchet) i tavoli avevano l’abitudine di ballare grazie alle sedute spiritiche che allora andavano di gran moda così come i giochi di prestigio che erano presentati negli spettacoli teatrali. L’entrata in scena delle merci aveva – e l’ha ancora di più oggi – la virtù di nascondere una prosa del mondo dove la loro esistenza è dovuta a un complesso lavoro ottenuto tramite lo sfruttamento della facoltà cooperativa. Ma qui si tratta di cose che, in quanto prodotti finiti, hanno in sé la storia che è storia umana di lavoro collettivo e di attività cooperativa. Una storia prosaica di uso umano di esseri umani che sui banconi e sugli scaffali di vendita non si vede più. Anche tutto questo fa parte del cosa significa essere umani; anche il nascondere nelle trame della superficie. Ma quando le bambine e i bambini giocano, si trovano nella duplice condizione di essere cooperativi e nello stesso tempo di mettere in scena. Qui non c’è nulla da nascondere, perché il fare finta è un atto consapevole e dichiarato, perché ciò che è profondo è già nella superficie, così come non vi è nulla da nascondere in ciò che fanno i gattini, i cagnolini, le scimmiette e gli umani adulti quando, giocando fra loro, cooperano dopo essersi accordati sulle regole del gioco e sui confini entro cui il gioco è gioco. Senza un accordo, che Gregory Bateson chiama metacomunicazione, non vi sarebbe cooperazione e senza cooperazione non vi sarebbe gioco. Qui la prosa del mondo è sostituita dalla poesia della vita. Con la cooperazione e con il gioco nascono mondi intermedi che si nutrono anche della finzione (da fingo: immagino, formo, creo figure), del fare finta, della messa in scena. Il nostro essere umani è anche questo oscillare, nella cooperazione e nel gioco, tra la prosa del mondo e la poesia della vita.