Di Richard Sennett, edito per Feltrinelli (Milano, 2014)
Ugo Morelli: In cosa consiste la novità di sottolineare la rilevanza del concetto “insieme”, con un successo ultradecennale, se siamo una specie sociale che insieme ci sta comunque?
Richard Sennett: Quello che conta è riflettere su come elaboriamo la nostra socialità, se tende a prevalere la cooperazione tra noi o si affermano forme di antagonismo eterodistruttivo e autodistruttivo. Questo sembra essere il problema principale oggi quando si considera l’eusocialità umana.
U. M.: Come può essere intesa la natura della collaborazione?
R. S.: La collaborazione è una qualità innata dell’uomo, che fin da neonato è in grado di cooperare con la madre. La collaborazione è essenzialmente un’arte, un’abilità sociale, e richiede un suo rituale, che va dal semplice dire grazie alle più sofisticate forme di diplomazia. È necessaria per operare con persone che non ci somigliano, non conosciamo, magari non ci piacciono e possono avere interessi in conflitto con i nostri. È quindi un’abilità fondamentale per affrontare la più urgente delle sfide dell’oggi, ossia vivere con gente differente nel mondo globalizzato.
U. M.: Eppure viviamo in un tempo in cui l’individualismo competitivo è dominante?
R. S.: È vero che la cooperazione è poco considerata nella società occidentale che le preferisce il modello della competizione individualistica o quello della chiusura di tipo tribale. Se ci chiediamo perché ciò accada e che cosa si possa fare per porvi rimedio, dobbiamo prima di tutto riconoscere che per prosperare le società hanno bisogno di quello scambio da cui si può trarre beneficio reciproco e mutuo soccorso. Nella mia indagine, insieme antropologica, sociologica, storica e politica, cerco di mostrare che cosa si intenda per collaborazione, spaziando dalle gilde medioevali al social networking; quali fattori ne abbiano determinato la crisi, nell’educazione e sul lavoro, con le conseguenti ricadute sul piano psicologico; in che modo la si possa ristabilire, a partire dalla pratica, dall’abilità di fare e riparare le cose, e dalle motivazioni che spingono l’uomo a cooperare con i propri simili, traendone soddisfazione e piacere.
U. M.: Insieme è un libro che rappresenta la seconda tappa del “Progetto homo faber”, una trilogia di studi volta a mostrare come le persone conformino l’impegno personale, i rapporti sociali e l’ambiente fisico, ponendo l’accento sulle abilità tecniche e le competenze che consentono di costruire la propria vita conciliandola con quella degli altri. Se la prima tappa, L’uomo artigiano, si incentrava su come si sviluppano le competenze del laboratorio artigiano, questo secondo lavoro si focalizza su quali siano le competenze che rendono le persone capaci di collaborare, sia nel mondo del lavoro, sia nelle attività sociali, culturali e politiche. La terza tappa del percorso, ancora in cantiere, riguarderà invece come costruire città capaci di rispettare l’esperienza personale e collettiva dei cittadini.
R. S.: Il filo conduttore è indagare come la collaborazione tra persone e tra gruppi possa essere plasmata, indebolita e rafforzata. A questi tre aspetti vengono dedicate le tre parti di Insieme, ciascuna composta di tre capitoli. In esse si dà conto dei modi con cui la collaborazione è stata resa possibile o difficile in varie epoche e contesti, attingendo a ricerche sociologiche, politiche, storiche e antropologiche. Ad esempio, si confrontano i diversi modelli di collaborazione sviluppati tra Ottocento e Novecento dalla sinistra politica nei partiti socialisti europei, impostati gerarchicamente con criteri di lotta politica nazionale, e dalla sinistra sociale nelle organizzazioni di comunità situate nei quartieri poveri delle grandi città americane, più aperti e meno strategici. Si ricostruisce poi il dibattito sulla compresenza di elementi competitivi e collaborativi nella specie umana nelle ricerche di genetisti, antropologi e psicologi evolutivi.
U. M.: E nella nostra attualità?
R. S.: Nell’attualità, si evidenzia come si sia degradata la capacità di collaborazione dalla fabbrica manifatturiera fordista, nella quale la stabilità produceva almeno un grado minimo di rispetto e fiducia reciproci tra operai e dirigenti, alle società del settore terziario avanzato, nelle quali la flessibilità e la mobilità delle carriere hanno prodotto stili di lavoro improntati a un individualismo non collaborativo.
U. M.: Cosa pensa delle teorie che sostengono l’egoismo individualistico come tratto distintivo dell’umano?
R. S.: Il problema non risiede in uno stato di natura costitutivamente avverso alla collaborazione. Le ricerche sull’attitudine collaborativa dei bambini nella prima infanzia dimostrano il contrario. Anche se è sempre intrecciata con elementi competitivi, la collaborazione è una capacità che emerge spontaneamente nella vita sociale, dove vi siano condizioni che permettono alle persone di riconoscere le reciproche abilità e limiti e di adattarvisi progressivamente. Questo avviene ad esempio nell’esperienza delle botteghe artigiane o nelle orchestre, nelle quali le persone sono consapevoli che la loro parte di lavoro riesce bene nella misura in cui sanno ascoltare e farsi capire dall’altro. Perché ci sia collaborazione, non è affatto necessario che vi sia identità di vedute tra i soggetti, né mirare a giungere a delle sintesi che superino le differenze. Da questo punto di vista, il procedimento dialogico, come modo di collaborare che anzitutto mira a trovare un terreno comune di comprensione, è in contrapposizione a quello dialettico, che invece rischia, con la sua tensione a trovare una sintesi, di annullare le differenze. Vista in questi termini, la cooperazione diventa una pratica che non solo impedisce l’annientamento o l’umiliazione dell’altro, ma può diventare un piacere, nei termini in cui sono un piacere i giochi collettivi, nei quali si può gustare la presenza dell’altro senza necessariamente essere simili a lui.