Non è difficile capire cosa evochi il vocabolo ‘Cooperazione’ in chi nasce a metà ‘900 da famiglia operaia ex-mezzadrile discesa a Reggio Emilia dall’Appennino matildico, da bambino va a far la spesa alla Cooperativa di Consumo del borgo con il ‘libretto’ (il conto viene saldato quando il padre percepisce il salario), cresce con il latte delle Latterie Cooperative Riunite, passa le estati a lavorare all’Azienda Cooperativa di Macellazione e poi alle Cantine Cooperative Riunite per pagarsi gli studi dal Liceo all’Università, con un nonno materno che, tornato dalle trincee della prima guerra mondiale, divenne sodale attivo di Camillo Prampolini e sempre rifiutò la iscrizione al PNF.
A quel nonno, nel ’45, i partigiani consegnarono il latifondista che, minandone la salute già negli anni ’20, mandava le squadracce fasciste ad aggredirlo, anche sparando contro la casa di sasso: memore del socialismo evangelico prampoliniano, il nonno chiese che il suo persecutore venisse lasciato libero, perché ‘nulla avrebbe potuto risarcire le sofferenze patite lungo tutto un ventennio’. Per quel tale, ‘Cooperazione’ significava unire i lavoratori per una economia sociale di mercato, di partecipazione mai subalterna al governo dell’impresa e di protagonismo per il cambiamento.
In quel contesto di speranza di pace, nel mondo di Giovanni XXIII e del Concilio, di Kennedy, e Kruscev, arrivava al ’68 confidando nella possibilità dei giovani di cooperare per costruire un mondo migliore e più giusto, tra letture spasmodiche, incrocio di culture, folte assemblee.
Poi il ricordo si fa angoscioso: il pensiero va agli anni di piombo, da Piazza Fontana e dalla strategia della tensione per bloccare cambiamento e riforme alle persone che improvvisamente, reclutate alla clandestinità, sparivano verso approdi terroristici di massimalismo e violenza contro cui la battaglia si dovette fare ogni giorno più forte, anche alla luce della tragica conclusione dell’esperienza democratica cilena con il sacrificio del Presidente Allende.
Cominciava a preoccupare allora, ed ancor oggi, che non sia possibile trasmettere, di generazione in generazione, la percezione degli errori già commessi e delle relative motivazioni, affinché l’ultima generazione in ordine cronologico possa certo liberamente errare, ma a partire dal confrontarsi con problemi e contraddizioni altri, più avanzati, rispetto a quelli fronteggiati dalla precedente.
Al riguardo, venne letto troppo tardi, e ora se ne consiglia caldamente la lettura a chiunque stia impegnandosi per il cambiamento, l’Odile di Queneau: quanti errori si sarebbero risparmiati se si fossero avute a mente le vicissitudini, là narrate, dell’avanguardia parigina del primo Novecento. In quei frangenti, caratterizzati dalla primazia della politica e della pratica sindacale, la cooperazione venne ad essere considerata come mera entità economica e i suoi valori andarono via via sfumando, a partire dalla dissoluzione del ruolo effettivo dei soci prestatori d’opera per arrivare a processi di concentrazione in vista di improbabili ‘business models’ fino al fallimento, in anni recenti, dei maggiori conglomerati che si andarono a costruire negli anni ’90, disperdendo migliaia di posti di lavoro ed in più casi lo stesso ‘prestito soci’, carattere peculiare della realtà cooperativa. Del percorso di snaturamento della cultura originaria di cooperazione e mutualismo a fronte della aggressione liberista sfociata nella globalizzazione deregolata, nella privatizzazione dei beni comuni e nella finanziarizzazione dissennata generatrici di terribili disuguaglianze e di crisi sistemiche i cui effetti oggi paghiamo, si dà contezza in alcune note di oltre un decennio fa: https://www.vita.it/de-coop-rofundis-3/. .
Al fine di non consentire il ricorso all’alibi ‘se avessimo saputo’ e alla deresponsabilizzante narrazione di un esito ‘necessitato’ del percorso, conviene evidenziare come in realtà nulla vi fosse di necessitato riproponendo brani di un dibattito pubblico vivace in essere già quaranta anni fa.
Nel numero di Gennaio-Febbraio 1986, la rivista della Lega nazionale delle Cooperative, “45”, ospitava un articolo (W. Ganapini, ‘Bologna come Bisanzio?’, in ‘Ambiente made in Italy’, 2004, Aliberti Ed., dedicato a Tullio Aymone analista del ‘modello emiliano’), il cui incipit recitava: “Anch’io, come Salvatore Veca ed altri ancora, ho sogni ricorrenti; fra questi, il più frequente mi vede, stanco e un po’ frustrato, rinunciare alla rincorsa, l’ennesima, di un treno che sta ormai lasciando la stazione di Bologna. Non sono solo: vedo attorno a me i volti noti di uomini e donne con cui intrapresi un percorso culturale e politico che ha condotto ad esiti i più differenziati”. Vi si dà conto di come fare della realtà emiliana un laboratorio di innovazione sociale e politico-culturale fosse proposta lanciata da Ingrao concludendo, nei primi anni ’70, un congresso della Sezione Universitaria PCI di Bologna, quella di Claudio Sabatini interlocutore privilegiato di Guido Fanti, attore del processo che diede vita alla Regione prima che il suo conflitto con Zangheri per la leadership del Partito generasse una Bologna arroccata e teatro di lunghi scontri tra fazioni. Tale proposta lasciò in molte persone segni profondi, radicata com’era nella grande ricchezza del tessuto sociale, economico e culturale costruito dal movimento operaio in decenni e ne individuava l’assunzione come base di ulteriori sviluppi ed arricchimenti antagonistici rispetto alle tendenze del modello di sviluppo guidato dal grande capitale economico e finanziario, dando centralità ad elaborazioni ed esperienze diffuse in materia di rapporto tra lavoro e studio e di trasformazione innovativa in campo psichiatrico, psico-pedagogico, di medicina del lavoro, di igiene ambientale, di decentramento e partecipazione dai Consigli di Quartiere ai Consigli di Fabbrica.
Si faceva strada la constatazione di come la logica del modello prevalente di sviluppo, finalizzata meramente ad una crescita intesa come massimizzazione del profitto di pochi e idolatria della produttività a scapito di una Umanità che martellanti campagne di comunicazione programmata con strumenti sempre più sofisticati e prodromici all’attuale combinazione di neuroscienze ed algoritmi volevano asservita ad un disegno di sfrenato consumismo materialistico, non avesse mai tenuto in conto, e men che meno assunto come vincolo etico, il dettato dell’Articolo 1 della Costituzione.
Neppure mai si assunse, nemmeno come variabile di programmazione delle politiche, la nozione di esauribilità, prima qualitativa che quantitativa , di risorse ambientali ed energetiche non rinnovabili, in spregio al Rapporto “Limits to Growth” elaborato nel 1972 dal MIT per il Club di Roma. Proprio per questa consapevolezza, la parola d’ordine dell’austerità, per quanto controversa sul piano dell’impatto psicologico, parve a molti essenziale per la sua capacità di porre in rilievo strategico la nozione di ‘limite’ e la criticità degli effetti del modello dominante, ragionando di disuguaglianza Nord/Sud del mondo, di pace e guerra, e proponendo l’uso razionale e parsimonioso delle risorse (quella che Amory B. Lovins definiva ‘elegant frugality’) come parametro centrale dei nuovi, quelli sì ‘necessitati’, modi di vivere, produrre, consumare di persone, comunità, imprese. Non era più patrimonio di pochi l’acquisizione secondo cui l’attuale modello di sviluppo veniva sempre più caratterizzandosi anche in Italia come generatore, ad un tempo, di fenomeni di sovrautilizzazione (concentrazione in aree limitate, in quanto le più favorite, di insediamenti abitativi, industriali, agricolo-zootecnici intensivi e delle grandi infrastrutture ad essi asservite) e sottoutilizzazione (marginalizzazione di aree montane, collinari e meridionali) di risorse ambientali. Nonostante apparissero vieppiù chiari i costi di tale modello, la resistenza al cambiamento da parte dei detentori di ricchezze e potere frenò con ogni mezzo le riforme necessarie, in Italia e nel mondo. Riemergendo dall’incubo ‘ferroviario’ ed aderendo alla nascente ‘nuova cultura dello sviluppo’, si dovette iniziare a prendere atto nei primi ’80 delle occasioni perdute da una cooperazione ormai ‘denaturata’, che aveva esaurito ruolo propulsivo di qualificazione di tessuto produttivo e territorio.
Se ne aggravava lo status subalterno di fatto, reclutando non solo nella ‘Milano da bere’ managers di incerta caratura industriale e di certa adesione alle logiche ultraliberiste del mercato deregolato, tagliatori di teste, di costi e di diritti, così arrivando persino a favorire l’accesso al mercato emiliano di competitori, da multinazionali a realtà della cancerosa economia criminale (dopo la pesante battaglia politica e sindacale che esitò nella controversa accettazione del cottimo nelle attività edili della ‘Cooperazione di Produzione e Lavoro’), sulla base di patti leonini che alla cooperazione lasciarono solo opere civili, precludendo avanzamenti in tecnologie e know-how innovativi. Arretratezza, subalternità, impreparazione nel fare fronte alle tematiche dell’innovazione e conseguente rincorsa affannosa di terreni e progetti proposti da altri scaturivano da procedure di reclutamento/cooptazione di gruppi dirigenti il cui bagaglio culturale, a differenza del carico ideale ed esperienziale delle prime generazioni di cooperatori, era permeato di considerazione della politica come pura e semplice mediazione di interessi secondo priorità dettate ‘colà dove si puote’. Si percepivano così come ‘settoriali’ e delegabili ad ‘addetti ai lavori‘ ulteriormente subalterni scelte su cui ci si deve misurare per assumere ruolo e capacità di governo della trasformazione, creando nuove imprese in settori innovativi, efficienti servizi reali alle esistenti, dal trasferimento di tecnologie alla assistenza sui mercati internazionali, e strumenti per incrementare qualità tecnica ed efficienza degli apparati pubblici, perseguendo già in quegli anni grandi opzioni di fondo quali il risanamento ambientale del paese, il recupero dei patrimoni artistici ed architettonici, la valorizzazione a fini produttivi di boschi, pascoli, strutture abitative e culture presenti nelle aree marginalizzate, il riuso dei tessuti urbani, il decongestionamento razionale delle aree sin qui sovrautilizzate, l’efficientamento dei servizi energetici e l’approvvigionamento da fonti rinnovabili. La sperimentazione e la diffusione di tecnologie produttive, organizzative, informatiche, di innovazione di processo e di prodotto appropriate alla piena utilizzazione della varietà di risorse territoriali e culturali del paese avrebbero potuto divenire fulcro di un progetto ad altissimo contenuto di scienza e tecnologia tale da rafforzarne la competitività a scala internazionale. Siffatte riflessioni in corso decenni fa sulla cooperazione non significavano evocare nostalgie passatiste, ma ricerca di protagonismo nel progettare i percorsi del nuovo sviluppo necessario a persone ed imprese, ripartendo dall’Emilia ed inserendo fra le regole del gioco un rigoroso controllo della pulizia delle mani dei diversi interlocutori in fase di avviamento e di gestione del progetto. Già allora ci si chiedeva se la cooperazione avesse adeguate cultura e volontà politica al riguardo: il dubbio sussisteva, ma in molti prevaleva la voglia di impegnarsi in nome dell’aspirazione all’utilità sociale del vivere, sperando di non ricadere in incubi quale il ferroviario inizialmente citato. Quaranta anni dopo, purtroppo, risulta difficile coltivare credibilmente quella speranza progettuale.