DONO COME ANIMA VERA DELLA COOPERAZIONE
Della cooperazione – intesa in senso amplissimo quale opera umana prestata ad altri o compiuta insieme ad altri per la realizzazione di una qualche impresa o per il conseguimento di un certo fine – credo si possa dire qualcosa di molto simile a quanto Aristotele afferma circa la realtà dell’amicizia nell’ottavo libro dell’Etica Nicomachea. I motivi per cui si diventa amici – osserva il Filosofo nel capolavoro che compendia la sua prospettiva morale – differiscono tra loro per specie, a partire dalla differenza sussistente tra le possibili tipologie di legame interpersonale: dandosi tre tipi di legame, è ovvio che anche le specie di amicizia siano tre. Più in particolare, lo Stagirita ritiene che si possa stringere un legame amicale con altri al solo scopo di ricavarne qualcosa di utile o per il piacere che ne deriva o, ancora, per la virtù sottesa alla relazione medesima: mentre i primi due tipi di amicizia (che potremmo anche definire d’interesse) sono tali soltanto accidentalmente e sono destinati a non durare (se ad interessarci, d’altro canto, non è la persona che il nostro amico è nel suo complesso, ma è soltanto qualcosa che questi rappresenta o ha o può farci ottenere, non appena quella persona cesserà di configurarsi in un dato modo o di avere o di poterci far ottenere ciò che ci alletta, il legame con lei sarà destinato a sciogliersi), il terzo – quello che s’instaura tra i virtuosi αρετήν ομοιων, simili per virtù – è perfetto perché volto al bene e dunque stabile e profondo.
Se quanto riportato in merito all’amicizia è plausibile, ritengo che lo stesso possa valere pure per la cooperazione: anch’essa è, a ben vedere, un’esperienza che – potendosi sostanziare a partire dall’utile, dal piacevole o dalla virtù – può presentare una gamma di significati diversificati e anch’essa può risultare autentica, durevole e pienamente fruttuosa solo se incernierata al bene. Per convincersene è sufficiente focalizzarci sul cuore di quest’ultima forma di cooperazione e sul quid che la rende tale, un’essenza che non consiste, prima di tutto, nel fatto che ognuno dei soggetti coinvolti nell’interrelazione cooperativa intenda essere sensibile alle intenzioni e alle azioni degli altri o nel fatto che qualcuno s’impegni ad aiutare gli altri nei loro sforzi in modo da raggiungere al meglio il risultato finale, quanto nel fatto che ciascuno dei partecipanti all’azione cooperativa sia nella condizione di donare agli altri, anzi – di più – di essere dono per l’altro o gli altri. Su questo vogliono soffermarsi le righe del mio intervento, giacché stricto sensu si può sostenere che sia impossibile cooperare senza donare (tale assunto – incidentalmente – ci fa capire perché, nel contesto in cui viviamo, cooperare sia, per molti, assai difficile).
Ora, come potrebbe essere descritta la fisionomia ontologica della relazione di dono? Voglio provare ad abbozzare una risposta a quest’interrogativo, isolando – sulla scorta di Roberto Mancini e del suo L’uomo e la comunità – quattro dinamiche antropologiche in grado di definirne la grammatica. La prima dinamica/valore a cui intendo riferirmi per suggerire qualcosa sull’anima del dono (e, quindi, della cooperazione) è quella della prossimità: condizione necessaria perché si dia dono e, pertanto, cooperazione autentica, è che si abbia a che fare con una relazione intersoggettiva di prossimità la quale comporta una storia e un divenire comuni. In tal sede, prossimità non significa naturalmente contiguità spazio-temporale, né conoscenza reciproca: come esistono relazioni di dono che hanno luogo nel faccia-a-faccia diretto, così se ne offrono alcune che reggono una prossimità differita, senza che donatore e donatario si conoscano. In entrambi i casi, la prossimità vale nel senso del movimento per cui qualcuno accetta di coinvolgersi nella vita di altri.
«La categoria più appropriata per designare questo movimento di libera corrispondenza – scrive Roberto Mancini – è quella della reciprocità essenziale. (…) Questa non va identificata con lo scambio mercantile, con la simmetria di ruolo e di prestazioni, con la simultaneità oppure con la complementarità, perché essa si attua ovunque si dia il coinvolgimento positivo dell’uno nell’esistenza dell’altro, in modo che i confini tra il ricevere e il dare siano sfumati, tenuti sempre aperti e non determinati secondo ruoli rigidi e unilaterali. Nel dono non ci sono mai atti, atteggiamenti, sentimenti, effetti che rimangono assolutamente entro l’esperienza esclusiva di uno e non degli altri soggetti coinvolti. (…) La tendenza fondamentale del dono è quella verso una reciprocità come pienezza di comunione, nella quale nessuno è identificato con un ruolo proprio perché a ciascuno viene riconosciuto di essere valore, mistero, libertà».
La seconda dimensione atta a caratterizzare l’anima del dono è identificabile con il suo esser radicato nel bene. Sa donare (e dunque cooperare) chi sa voler bene all’altro e vuole perseguire il bene altrui: si dispiegano in questa intenzionalità sia il potere conoscitivo di cogliere l’altro come bene, sia quello deliberativo di volere il suo bene e di volere il bene in sé e per sé. Terzo attributo caratterizzante la dinamica del dono e della cooperazione è la gratuità: essa opera tanto nella scelta di dare del donatore quanto in quella di ricevere del donatario. Da una parte, la libertà del donatore esprime una trascendenza che è irriducibile alla separazione dall’altro e che è auto-trascendimento; dall’altra parte, quella del donatario viene riconosciuta e rafforzata dalla donazione stessa. Attraverso tale bipolarità la gratuità appare quale libertà del bene che non chiede nulla in cambio e che si rivela come misura della sua dismisura nel suo sfuggire ad ogni determinazione quantitativa.
«Questa è la cifra – dice di nuovo Mancini – che è necessario tener presente per comprendere il senso della gratuità [senza cui cooperare nella forma più propria è impossibile]: essa è reale nella donazione quando l’altro in quanto tale venga assunto come il suo fine e il suo valore. Si vuole e si pratica il bene, attraverso il dono, perché si attinge al bene, se ne partecipa come a una realtà che ci precede e che è la fonte delle nostre esperienze di bontà. In tal senso ogni vero dono è una traduzione del bene in quanto origine, principio vivente del reale».
Da ultimo, va segnalata la caratteristica condivisa dalla diade dono/cooperazione d’essere eventi generatori e rigeneratori. Ponendosi come avvenimenti non prevedibili deterministicamente e non dovuti, essi permettono la fioritura di relazioni e atteggiamenti concretamente spalancati sul presente e profeticamente aperti al futuro. Il bene sperimentabile nel dono rivela il segreto dell’insperata capacità della vita di traversare ciò che la nega e le si oppone, e mostra come per essere vissuta genuinamente quest’ultima non vada trattenuta o privatizzata e accumulata, ma goduta generosamente, ricomunicata con cura e condivisa. Fare esperienza di dono e di cooperazione è allora un po’ come essere destinatari di un’epifania luminosa circa il nostro nucleo ontologico più profondo: se proviamo a concentrarci sulla loro dialettica possiamo comprendere come ogni dono e ogni forma di vera cooperazione non siano mai uno scambio ma un incontro tra due o più gratuità. Accettare d’essere esistenzialmente illuminati e rigenerati dalla loro manifestazione è qualcosa che ha a che fare con la struttura essenziale della personalità e con il nostro compito precipuo di uomini: accogliere appunto la verità del dono e della cooperazione perché il bene si riveli come dimensione capace di ospitarci e proteggerci e scegliere di assumere, nel contempo, lo stesso modo di esistere di ciò che è gratuito e buono per diventare veri a nostra volta.
¹ Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 1155a-1155b, Bompiani, Milano 2018, pp. 784-787.
² Cfr. Ibi, VIII, 1156a, p. 791.
³ M. E. Bratman, Shared Cooperative Activity, in Idem, Faces o/ lntention. Selected Essays on lntention and Agency, Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 94-95.
⁴ Cfr. R. Mancini, L’uomo e la comunità, Qiqaion, Magnano 2004, p. 60.
⁵ Ibi, pp. 61-62.
⁶ Ibi, p. 66