Nel mio ultimo libro (L’Ottava solitudine. Il cervello e il lato oscuro del linguaggio, Il Mulino, Bologna, 2024) ho preso una decisione anacronistica e controcorrente: parlare dell’importanza della solitudine. Non sono sicuro di aver fatto bene, ma certamente ho dato ascolto alla coscienza interiore che mi obbligava a scriverlo. Alea iacta est. In questo articolo vorrei spiegare perché ci ricaviamo spazi di pensiero e di scrittura anche quando tutta la nevrosi dell’esserci nel mondo sembra volercelo impedire.
È sensato parlare di solitudine nel momento in cui il mondo globalizzato, la rete, i social, i media ci soffocano di contatti e informazioni? Ci sentiamo meno soli quando siamo iperconnessi? Rendere note le news della nostra vita quotidiana appaga davvero il desiderio di interagire con gli altri? E l’interazione digitale, poi, siamo certi che possa renderci felici?
Per chi non appartiene alle generazioni dai millennials in poi la risposta può sembrare facile: non solo è sensato parlare di solitudine ma è necessario farlo. Chi (come me) è vissuto in tempi in cui il principale desiderio era quello di nascondere la propria vita privata per poterla realizzare appieno, ha il dovere di insegnare la virtù discreta della solitudine. Fermarsi ad ascoltare in silenzio il linguaggio interiore, ciò che abbiamo da dire a noi stessi, in primo luogo, è un esercizio cognitivo da cui non possiamo esimerci per salvaguardare la salute mentale e la ricerca della felicità.
Ma per i nati digitali questa ovvietà può non essere scontata. L’igiene della solitudine può anzi atterrire questi giovani, stiano essi dalla parte degli influencers che da quella dei followers. E non hanno tutti i torti: è il panico di una cultura interamente alimentata dalle mitologie della comunicazione, in gestazione nel secolo scorso ma pienamente realizzata solo nei primi venti anni del nuovo millennio. Un’esaltazione che è stata linguistica, filosofica, sociale, tecnologica e che ha emarginato, ma, a volte, anche umiliato o ridicolizzato, l’introspezione, la riflessione, la stessa idea del pensare in proprio.
Questo duplice atteggiamento nei confronti della solitudine – la necessità di rifugiarvisi o di rifuggirne – non nasce nelle nostre cronache contemporanee, non è un piagnisteo da boomer, ma si tratta, al contrario, di un’esigenza sempre presente nella storia di tutte le culture religiose, filosofiche, letterarie. Questa universalità culturale della solitudine riposa, a sua volta, come vedremo, sulla biologia del cervello umano: per sua natura interiore e linguistica.
Spinoza, Proust e Foscolo
Di fatto quando si arriva a toccare con mano l’insopprimibile necessità di frugare nell’idea di solitudine vuol dire che il conflitto tra individuo e mondo ha raggiunto il suo punto di frizione più alto. Da lì in poi il sottile confine tra scrivere e non scrivere viene forzato quasi senza accorgersene: non si teme più l’anacronismo e, meno che mai, l’isolamento.
Spinoza, frugale asceta della solitudine razionalistica, era convinto che «ogni felicità o infelicità risiede unicamente nella qualità dell’oggetto a cui l’amore ci unisce» (TIE, 1656-77, 115). Solo se rivolgiamo il nostro amore verso un oggetto di qualità riusciremo ad essere felici, altrimenti vivremo sempre nella tristezza. Sembrerebbe quindi, a prima vista, che siano le proprietà intrinseche dell’oggetto d’amore a promuovere in noi uno stato di felicità. Se si tratta di una donna, ad esempio, la sua qualità consisterà nell’essere attraente, intelligente, esuberante. Se si tratta di un uomo consisterà nel brillare per robustezza, carattere, potenza. Ciò vale qualsiasi sia la natura dell’oggetto d’amore (sessuale, filiale, amicale, etc.).
In realtà le cose sono più complicate di come sembrano a prima vista. Nella sua Etica Spinoza chiarisce che il bene o il male non scaturiscono solo dalle proprietà intrinseche dell’oggetto ma dalla nostra disposizione verso questo: «noi desideriamo una cosa non perché la giudichiamo buona, ma, al contrario, chiamiamo buona la cosa che desideriamo» (E, 1373). In particolare desideriamo, attraverso l’amore, guardarci allo specchio: «quando amiamo una cosa simile a noi, ci sforziamo, per quanto possiamo, di far sì che essa ci ami a sua volta. Se dunque la cosa è simile a noi, ci sforzeremo di arrecarle letizia più che alle altre» (E, 1363). La qualità dell’amore è, insomma, una proprietà che riguarda l’individuo che immagina, che pensa e costruisce con la mente l’oggetto stesso che ha deciso di amare: «ζητεῖ δὴ άεὶ τὸ αὐτοῦ ἒϰαστος σὺμβολον» (ciascuno va sempre alla ricerca del simbolo di sé stesso) scriveva Platone nel Simposio (191d). E sta qui il primo conflitto tra individuo e mondo. Al di là di una qualunque retorica che possa oggettivare il desiderio, è solo quest’ultimo che sta alla base del nostro sentimento di solitudine. È quel sentimento che ci spinge a scrivere non per il mondo ma nonostante il mondo.
Si tratta, com’è facile intuire, di un lavoro estenuante e impopolare che scaturisce dall’attitudine a pensare in proprio, a pensare in profondità, a martellare l’autobiografia curvandola verso la verità, senza curarsi di sembrare alieni nel mondo della cronaca esistenziale. Un lavoro che ha bisogno di tempi lunghi e di memoria, che antepone la ricerca della verità al successo immediato e contingente. «Possiamo conversare tutta una vita senza fare altro che ripetere indefinitamente il vuoto di un minuto, mentre il cammino del pensiero nel lavoro solitario della creazione artistica avviene nel senso della profondità, la sola direzione che non ci sia preclusa, in cui possiamo progredire, con più fatica, è vero, verso un risultato di verità», affermava Marcel Proust nella sua Recherche maturata in venti anni di riflessione e quasi quattromila pagine di scrittura.
Tempo e incarnamento della ricerca di verità nella memoria autobiografica, si prolungano nella speranza di posterità: l’ultimo passo nel conflitto tra individuo e mondo, tra il riconoscimento di sé e la polverizzazione nell’anonimìa della morte. Così nel Foscolo ottocentesco, laico e romantico, l’estensione dell’editto napoleonico di Saint-Cloud all’Italia produce una reazione poetica di grande risonanza filosofica:
«All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne / Confortate di pianto è forse il sonno
Della morte men duro? Ove più il Sole / Per me alla terra non fecondi questa
Bella d’erbe famiglia e d’animali (…) / Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
Che distingua le mie dalle infinite / Ossa che in terra e in mar semina morte? / (…)
Non vive ei [ogni uomo mortale] forse anche sotterra, quando
Gli sarà muta l’armonia del giorno, / Se può destarla con soavi cure / Nella mente de’ suoi?
Celeste è questa / Corrispondenza d’amorosi sensi, Celeste dote è negli umani».
Questa celeste dote specie-specifica non è pura concessione alla pìetas. Foscolo è spinto a scrivere perché l’individualismo, più ancor che l’individuo, si prolunghi oltre la vita e diventi contrassegno di un rango cognitivo consapevolmente condiviso con pochi, oltre il conformismo e la rassegnazione. Di questa rivolta inegualitaria si fa simbolo la tomba, ciò che ci ricorda non solo ai nostri cari ma al mondo intero, dopo che il nostro viaggio si è concluso nel nulla. La qualità dell’amore che si prolunga oltre la morte non si compra col denaro – «il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo (che) nelle adulate reggie ha sepoltura» – ma con l’esercizio umile e nobile della scrittura.
«A noi / Morte apparecchi riposato albergo / (…)
Non di tesori eredità, ma caldi / Sensi e di liberal carme l’esempio / (…)
Me ad evocar gli eroi chiamin le Muse / Del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri, e quando / Il tempo con sue fredde ale vi spazza / Fin le rovine / (…)
Di lor canto i deserti, e l’armonia / Vince di mille secoli il silenzio / (…)
finchè il Sole / Risplenderà su le sciagure umane»
Questa professione di fede (e di speranza) verso la specialità di un’élite cognitiva il cui ruolo è destinato a prolungarsi in eternità sembra radicarsi bene nella mente romantica in cui c’è ancora posto per il riconoscimento diffuso per l’arte, la filosofia, la letteratura e la scienza. Il Romanticismo è ancora una religione laica. Oggi la religione laica che fa credere a pochi di non aver vissuto inutilmente è, tuttavia, immensamente meno consolatoria delle confessioni religiose conformiste dei più: delle immense masse dei cristiani, dei musulmani, degli indù, dei buddisti e degli ebrei e, per certi altri versi, anche dell’ormai incalcolabile popolo dei social. Idea, quindi, nobile ed esplicita quella di Foscolo, ma ai giorni nostri drammaticamente inattuale e quasi patetica.
Ci salveranno le neuroscienze?
La solitudine come ragione di scrittura, come motivazione alla scrittura, passa, quindi, per tre punti irrinunciabili comuni ad ogni intellettuale in ogni tempo:
- l’individualismo e la ricerca della qualità dell’amore;
- il lavorìo interiore profondo della ragione e della memoria alla ricerca di verità;
- la necessità di una posterità a cui affidare le idee della propria esistenza.
È possibile realizzarli conformemente alle idee dei tempi nostri? Domanda difficile.
Viviamo un momento della nostra storia che sembra aver ormai cambiato irreversibilmente l’antropologia umana. I valori espressi dalla storia occidentale sono ormai nettamente minoritari, come pure la loro demografia. Le cosidette crisi della democrazia sono lo specchio di un drammatico arretramento della laicità ovunque. I diritti liberali degli individui entrano in aperto contrasto con l’espansione dilagante di tutte le confessioni religiose in conflitto tra loro e con la laicità in generale. Ma, soprattutto, l’incontenibile egemonia della rete, e dei social in particolare, ha generato un abisso tra chi produce contenuti, e strumenti della loro diffusione, e chi ne fruisce, da non avere uguali nella storia dell’umanità. Una divaricazione antropologica tra popoli e classi dirigenti che rende del tutto superflua la mediazione degli intellettuali: illusione penosa di un tempo che fu. Non solo sembrano ormai definitivamente alle spalle le rivoluzioni liberali della modernità, ma la stessa rivoluzione tecnologica contemporanea che ha generato un prodotto straordinariamente affascinante e indispensabile come l’Intelligenza Artificiale, sembra fagocitare se stessa, rischiando di essere piegata ad usi potenzialmente illiberali e neo-confessionali. In questo clima completamente stravolto rispetto a quello del XXI secolo chi potrebbe dar retta al tormento dell’individuo, al lavoro interiore della ragione e alla ricerca della verità o alla speranza di una posterità a cui trasmetterli?
Partita persa per sempre, quindi? È probabile.
Ma c’è una speranza, universale perché biologica, e quindi comune a tutti gli individui, che risiede nel nostro cervello e negli studi che stanno pian piano dimostrando il perché la nostra specie sia arrivata intatta sino ad oggi nonostante tutti gli intermittenti sonni della ragione. Tra le tante porte aperte dalle neuroscienze contemporanee che hanno rivelato la ragione biologica della cooperazione tra gli individui, i vantaggi sociali dell’interazione e comunicazione reciproca, la forza unificante delle emozioni e dei sentimenti comuni, pare emergere negli ultimi venti anni l’esistenza di un territorio cerebrale, sinora inesplorato. Quello del pensiero solitario, della riflessione e del linguaggio interiore, della capacità di incarnare il nostro apprendimento razionale nella memoria autobiografica dell’individuo. Il luogo della solitudine cerebrale, diremmo, a cui tutti gli individui accedono per fermarsi a capire. Si tratta del Default Mode Network (DMN).
Non è qui possibile spiegare nei dettagli di che si tratti. In questa rivista ne ho già accennato nell’articolo La solitudine dei corpi (8/2022). Chi vuol saperne di più lo troverà nella terza parte del mio libro citato all’inizio. Chi vuol conoscere i dettagli della ricerca neuroscientifica contemporanea può leggere i lavori di M.E. Raichle o di J.R. Binder, tra i tantissimi oggi dedicati all’argomento. Due parole di collegamento al tema di questo numero di Passion&Linguaggi è però d’obbligo.
Il DMN è un insieme di regioni cerebrali che si attivano, in maniera quasi esclusivamente complementare: cioè che si escludono a vicenda. Quando siamo impegnati in compiti che richiedono attenzione verso l’esterno, si avvia una parte di questo circuito e si arresta l’altra. Quando ci troviamo in uno stato di riposo (resting state) accade il contrario. Dal punto di vista sperimentale, si monitora con la fMRI il cervello di un soggetto che o è invitato a risolvere un compito specifico (rispondere sul significato di un’immagine, di una foto, di un evento o di un’interazione qualunque), oppure è lasciato rannicchiato e solo all’interno del cilindro blindato in cui avviene la risonanza magnetica con, al massimo, un piccolo punto luminoso da fissare. È questo il caso non metaforico della solitudine cerebrale. Gli studi sul DMN ci dicono che riflettere in proprio, attraverso il linguaggio interiore, non è un evento speciale ma uno stato cognitivo ordinario in cui passiamo almeno la metà del tempo e riserviamo ad esso la maggior parte delle energie mentali. La ricerca ha dimostrato che l’attività intrinseca della mente in completo isolamento consiste nello scavare tra i problemi della memoria autobiografica che ci preoccupano usando quelle «astrazioni incarnate» che sono i significati delle parole. In altre parole il nostro DMN provvede a rendere sigillato da tutte le influenze esterne (contestuali, culturali, sociali, etc.) il flusso del pensiero individuale e soggettivo, permettendo di riversare poi nell’interazione col mondo tutto quello che siamo stati capaci di elaborare, indipendentemente dal contenuto dei problemi (dalle piccole preoccupazioni quotidiane a scrivere un capitolo di Essere e tempo).
Questa straordinaria scoperta ci permette per la prima volta di ripensare al lavoro intellettuale, al pensare in proprio, non come il capriccio aristocratico di raffinati intellettuali ma come allo stato di default che caratterizza l’animale umano. Senza la solitudine, all’interno della quale siamo costretti a ripensare continuamente il mondo, non avremmo mai nulla di nuovo da offrire all’interazione, al dialogo, alla comunicazione con gli altri nostri conspecifici. E, forse, questa è già un’ottima ragione per continuare a scrivere nonostante il frastuono, la confusione e l’irrazionalità del mondo circostante.