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Lettera inutile

Autore

Carlo Pacher
Carlo Pacher, classe 1995, lavora per la formazione e lo sviluppo delle persone in La Sportiva. Ha conseguito una doppia laurea in Scienze Filosofiche presso gli atenei di Padova e Jena, in Germania, con una tesi dal titolo: "Intersoggettivà, costruzione, limite. Intorno alla riflessione hegeliana sul linguaggio", tema a cui ha lavorato sotto la guida dei Professori Luca Illetterati e Klaus Vieweg. Precedentemente aveva affrontato il tema della conoscenza di sé in Platone per l'elaborato di tesi triennale con il Professor Carlo Scilironi. Nell'estate 2021 ha preso parte al corso executive "Strategie e nuovi modelli di sviluppo sostenibile" presso CUOA Business School. Attivo in più realtà di volontariato sociale a livello locale, musicista per passione.

Caro Lettore, cara Lettrice,

In questo spazio dovresti – possiamo darci del tu? – trovare una riflessione sul tema di questo mese, “il blocco dello scrittore”. E certo, tante sono le idee che ho affastellato nelle giornate di aprile per provare a dirti qualcosa in merito.

Sulle prime ho immaginato di provare a chiarirti come Hegel intendesse il salto al linguaggio, mirabile sforzo che nel consegnare il proprio “io” ad un “tu” realizza (nel senso che rende reale) proprio l’esistenza oggettiva del mio io, ovvero che fondamentalmente non esiste un io e neanche un tu senza un noi, dove noi vuol dire parlarci. “Un Io che è Noi, un Noi che è Io”, scrive proprio così.

Ho scartato quest’idea per la tecnicità e l’immaginato scarso interesse che avrebbe potuto avere per te e sono allora passato ad accarezzare una riflessione forse migliore sulle parole che parliamo, i significati in prima persona che tentiamo di dare adoperando nel modo che ci sembra più corrispondente a ciò che sentiamo parole che non sono solo nostre, ma oggettivamente riconosciute; raccontarti cioè di come, se ci pensi, per dire le cose più soggettive, intime e nostre abbiamo a disposizione solo parole di tutti, di come per dire la nostra unicità dobbiamo rifarci a significati comuni, quelli che anch’io nel mio ora sto digitando su una tastiera e che tu, nel tuo di ora, stai leggendo. Quando dico “casa”, io intendo la mia e tu la tua, o forse pensiamo a cose diverse ancora, ma sicuramente non sei nel mio sentire esatto nel momento in cui intendo la parola che significo – né io lo sono nel tuo intendere (intendermi?). Ma allora, cosa stiamo capendo dell’altro, quando parla? Cosa, leggendolo nella sua scrittura? 

Oppure, proseguendo questo ragionamento per un’altra via: quante parole ho io per dire tutta la mia vita, per comunicare le sfumature del mio sentire, vedere, stare, imparare? “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, aveva proprio ragione Wittgenstein. Se chiamo “paperella” una folaga per tutta la vita, rischio di non aver mai visto una folaga. Di quante parole dispongo, posto che con quelle significherò una vita intera?

Ecco allora che, mentre pensavo a cosa scriverti, mi sono trovato a considerare come scrivere e parlare assomigli moltissimo a un compromesso, in cui sacrifico qualcosa del mio intendere per provare ad incontrare la tua comprensione di quel che sto mettendo nelle parole che vado impiegando, una comprensione che è approssimativa, perché chissà che cosa starai capendo di quel che scrivo. Se ci pensi, è paradossale che l’unico modo che abbiamo per capirci sia non capirci del tutto, che l’unica via da percorrere per vite e vite, secoli e secoli in cui l’uomo ha tentato e sta tentando senza sosta la comunicazione, sia in fondo abitata dalla domanda di fondo se avrò mai inteso quel detto e quel non detto, quella smorfia e quello sguardo.

E allora, a che scriverti, caro Lettore, cara Lettrice? Come provo a dirti quel che vorrei tentare di dirti? E a che vale questo mio provare dirtelo? Che cosa arriva a te del senso che io provo a dare a queste poche parole che ho a disposizione?

Perché vedi, una parte di verità che non posso trattenermi dal confessarti – è un segreto di pulcinella! – è che fare lo sforzo di scrivere e descrivere tutti i mesi il mio pensiero, il mio sentire, provare a tematizzarti il modo in cui penso valga la pena vedere le cose e la ricerca che dietro ad un pensiero si sviluppa fino alla sua conclusione è fatica, è interrogazione, è sforzo ingentissimo di immedesimazione e immaginazione di te, a cui non so nemmeno che cosa starà arrivando, se ci staremo incontrando o se no dove ti ho perso, nello spazio di questo breve scritto; oppure se ci sei ancora, che cosa penserai di questo scrivere, che cosa penserai di me.

E allora oggi provo a permettermelo, a permettermi di dirti che questa fatica bellissima che può valere più di un attimo di quelli che fanno grande la vita – e stai leggendo uno che su questo è pronto a scommetterceli, quegli attimi –, uno sforzo che è tra i più importanti che si possa fare io e te, insieme, oggi mi chiede di condividerti in presa diretta queste mie riflessioni, così, come escono dalle mie dita e dalla mia mente. Perché, forse, anche così ci possiamo intendere, anche così possiamo condividere tanta o parte di quell’approssimazione tra noi che chiamiamo comunicazione, incontro, relazione.

E qui mi fermo, anzi: mi blocco.

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