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La forza del silenzio

Autore

Generoso Picone
Generoso Picone, Giornalista, Scrittore, autore di pubblicazioni storiche e di analisi sociale, studioso della letteratura italiana contemporanea.

Nella casa dove Italo Calvino abitava a Roma – uno spettacolare attico con terrazze su tre livelli che da Campo Marzio regala ancora una struggente immagine della città – c’era una scrivania in ogni stanza. L’appartamento poteva vivere di vita sua, riempirsi di confusione e voci, addensarsi di suoni e rumori, ma lui riusciva a mettersi al lavoro sulla pagina incurante di quelli che a chiunque altro sarebbero apparsi disturbi feroci, ostacoli insormontabili, distrazioni fatali. Anzi: pare che amasse proprio ritrovarsi in una condizione del genere, quasi per poter adottare il dispositivo di separatezza straniante in base al quale alla massima complessità corrispondeva maggiore concentrazione. Come se soltanto in quello stato sarebbe stato praticabile l’esercizio della connessione trasversale dei saperi e delle conoscenze, l’only connect indicato da Edward Morgan Forster, l’intreccio mobile e a sua volta germinativo tra letteratura, arte, scienza, filosofia, matematica, immaginazione. 

Lo ritroviamo lì mentre si curva sui tavoli in legno grezzo che oggi restano distribuiti nelle camere comunicanti. La sua postura potrebbe essere quella del signor Palomar a cui diede parole e sguardo nel racconto teoretico del 1983, «“uomo nervoso che vive in un mondo frenetico e congestionato, il signor Palomar tende a ridurre le proprie relazioni col mondo esterno e per difendersi dalla nevrastenia generale cerca quanto più può di tenere le sue sensazioni sotto controllo»”. È Emesso duramente alla prova dalla velocità scomposta di un tempo che sfugge a ogni interpretazione: così prova a isolarsi, a ritagliarsi uno spazio per ragionare e riflettere su di sé e sulla realtà, nello sforzo ontologico di recuperare il senso su entrambi i versanti e tradurlo in linguaggio. Davanti a un’onda si cimenta a leggerla, a tentare di cogliere dove inizi il suo movimento e in che direzione si prolunghi per andare chissà verso che cosa. C’è una bellissima fotografia di Luigi Ghirri che fissa in uno scatto il mare d’invernso da una spiaggia deserta, incorniciato nei contorni di quadrato di legno bianco destinato a trasformarsi in docce per i bagnanti durante l’estate: in questo enigma il signor Palomar avrebbe riflesso il profilo di sé mentre fissa il movimento di una singola onda, «“oggetto limitato e preciso»”, per dover presto constatare che «“isolare un’onda separandola dall’onda che immediatamente la segue e pare la sospinga e talora la raggiunge e travolge, è molto difficile; così come separarla dall’onda che la precede e che sembra trascinarla dietro verso la riva, salvo poi magari voltarsglisi contro come per fermarla»”. Impossibile sfuggire alla complessità, con il sentimento sfuggente della vita bisogna inevitabilmente fare i conti mettendo in preventivo l’onere della sconfitta.

In fondo, il signor Palomar risulta proprio uno sconfitto. Il metodo di catalogazione della realtà non ha retto alla prova, le categorie approntate sono risultate fragili, lui si arrende alla necessità di “studiare tutto daccapo” e Italo Calvino chiude la sua vicenda inseguendo un filo che sta per troncarsi. «“Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore»”. La realtà potente e dura ha vinto sull’astrattismo del pensiero, ma Calvino delinea pure un ulteriore livello di speculazione: afferma che portando le meditazioni al loro culmine, dopo non c’è che la meta del silenzio.

Quattro anni più tardi, nel 1987, Gianni Celati apre le sue “Quattro novelle sulle apparenze” con un racconto che sviluppa nel calco di “Palomar”. Italo Calvino, del resto, è stato un suo riferimento intellettuale, prima ancora che letterario, importante: decisivo per la sua maturazione di narratore, offrendogli l’egida in casa Einaudi e svolgendo con lui interminabili e fitte conversazioni tra Bologna – la città del Dams dove Celati allora insegnava – e Parigi – la città dove Calvino si era ritirato. “Quattro novelle sulle apparenze” è inaugurato dalla storia di Baratto, una specie di Bartleby lo scrivano che uscito dalle pieghe newyorkesi di Herman Melville si ritrova in un campo da rugby del piacentino a giocare partite sempre più tormentate e caotiche. «“Per molto tempo a centro campo ci sono solo mischie seguite da fischi dell’arbitro, discussioni tra i giocatori, discussioni tra l’arbitro e i giocatori e grida dell’allenatore dalla panchina»”.

A un certo punto Baratto non regge più, scuote la testa e comincia a insultare i suoi compagni perché sono sempre a polemizzare con l’arbitro, attraversa a capo chino il campo e grida: «“Non c’è niente da discutere»”. Si arrabbia insultando tutti. Quindi va via, gli è passata la voglia di giocare.

Baratto, come Bartleby, pronuncia così il suo “Avrei preferenza di no” e sceglie il silenzio. Da quella volta non parlerà più, a lungo, chiuso in se stesso in famiglia, al lavoro, in paese, dal medico. Fino a un giorno in cui recupera la parola nel sonno, da sveglio si tocca la testa, sussurra che ormai succede tutto all’esterno e a occhi chiusi dice: «“Le frasi vengono e poi vanno, e fanno venire i pensieri che poi vanno. Parlare e parlare, pensare e pensare, poi non resta niente. La testa non è niente, succede tutto all’aperto»”. Baratto si sveglia e toccandosi il ginocchio mormora: «“Oh. Mi è tornato male al menisco»”. Riprende al parlare.

Palomar e Baratto sono testimoni e interpreti di tempi confusi. I loro anni, gli anni ’80, sono stati così. Il loro silenzio non è una resa, ma l’intimazione muta di una pausa dal rumore per potersi fermare e stabilire limiti al dicibile. Nel mondo di oggi straziato da parole e immagini vuote e vacue, quest’appello assume le forme di una risorsa civile. La condizione indispensabile per capire.

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