Il blocco dello scrittore e l’impasse dello spirito

Autore

Paolo Fedrigotti
Paolo Fedrigotti (Rovereto, 1981) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Dante e la filosofia medioevale. Si è specializzato nell’insegnamento secondario presso la Ssis della Libera Università di Bolzano. Ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia presso lo Studio teologico accademico di Trento. Nella stessa città è docente di storia della filosofia e di filosofia della conoscenza ed epistemologia all’Istituto teologico affiliato e all’Istituto di scienze religiose, nonché di filosofia e storia nei licei di Riva del Garda. È membro della Scuola di Anagogia di Bologna e autore di numerosi articoli specialistici e monografie.

RIFLESSIONI SULLA COSCIENZA INVASA A PARTIRE DA UNA PAGINA DI ORWELL

Il topos del blocco dello scrittore è, senza dubbio, un elemento ricorrente nella letteratura degli ultimi due secoli: tra i romanzi che si segnalano per il fatto di offrirne una tematizzazione significativa, Fiorirà l’aspidistra, di George Orwell, occupa una posizione di rilievo. Pur non godendo della notorietà della Fattoria degli animali o di 1984, l’opera – ambientata nella Londra sospesa tra le due guerre mondiali – risulta molto interessante per chi voglia comprendere la poetica dell’autore. 

Il suo protagonista è Gordon Comstock, modesto commesso presso una libreria della City e scrittore spiantato, le cui velleità letterarie sono puntualmente frustrate da una serie innumerevole di incomprensioni con le case editrici a cui invia, sempre invano, i suoi manoscritti. Gordon è un ribelle ossessionato dal capitalismo e dalla pervasività del denaro: nel tentativo di respingere, quasi asceticamente, la schiavitù dei soldi e di sottrarsi all’ottusità dei codici sociali dominanti, egli finisce per isolarsi sempre più dal suo contesto di provenienza, la piccola borghesia, fino a mettere in atto una sorta di declassamento volontario, che lo porta a scendere uno dopo l’altro – insieme alla fidanzata Rosemary – i gradini della scala sociale e a vivere in condizioni di povertà. All’interno di questa sfida disperata, la pianta di aspidistra – il fiore nazionale inglese – diventa per Gordon l’emblema dell’opaca rispettabilità borghese e del perbenismo. Anche lui ne possiede una: la trascura volutamente, cercando di farla morire. Dopo essere precipitato in una sorta di cupo vortice vittimistico, Gordon è scosso dalla notizia di un’imminente paternità. L’evento sembra in grado di rivoluzionargli la vita, dovendo egli assumere quelle responsabilità che aveva fino ad allora scansato in quanto scelte di ordinario conformismo. Prenderà lavoro presso l’azienda pubblicitaria che tanto aveva odiato, considerandola uno strumento del più bieco capitalismo. Nel momento in cui la stessa aspidistra finisce per sembrargli una pianta rispettabile e perfino simpatica, nel suo esser riuscita a sopravvivere a tutte le sue angherie, Gordon rientra nei ranghi della vita borghese: accettandola pienamente, senza se e senza ma, egli paga la sua scelta con la rinuncia definitiva ad ogni aspirazione artistica. 

Nella prima sezione di Fiorirà l’aspidistra, Orwell descrive con dovizia di particolari il blocco dello scrittore che attanaglia Gordon alle prese con il lavoro letterario che dovrebbe consacrarlo, Piaceri londinesi, un poema di duemila versi in strofe di sette decasillabi, teso a descrivere una giornata tipo a Londra.

«Era una cosa troppo grande per lui – si legge nel secondo capitolo – questa era la verità. Il poema non era mai andato avanti, s’era semplicemente frantumato in una serie di frammenti. E dopo due anni di lavoro, ecco tutto quello che aveva da mostrare: solo frammenti, incompleti in se stessi e impossibili a connettersi tra loro. Su ognuno di quei fogli di carta protocollo c’era qualche monco frammento di verso ch’era stato scritto, riscritto e riscritto ancora a intervalli di mesi. Non c’erano cinquecento versi che si potessero dire definitivamente compiuti. Ed egli aveva perso il potere di continuare il poema; poteva soltanto gingillarsi con questo o quel passaggio, brancolando ora in questa direzione, ora in quella, nella confusione del tutto. Non era più una cosa che egli avesse creata, ma soltanto un incubo nel quale si dibatteva»1.

Le parole con cui Orwell descrive il blocco sperimentato da Gordon non potrebbero essere più efficaci: egli mostra come l’impossibilità di procedere del suo personaggio nel proprio lavoro scaturisca dalla sua inidoneità a coglierne il filo conduttore, il senso, al di là dei frammenti che lo compongono. Credo che – trascendendo l’economia del romanzo in oggetto e aprendo lo sguardo sul più ampio orizzonte dell’esistere – l’immagine che Orwell ci consegna rappresenti una potente metafora atta a descrivere l’impasse spirituale di chi – a partire da una condizione coscienziale invasa – non sia in grado di unificare i fenomeni e i fattori che ne popolano la vita quanto al loro senso ovvero di chi non sia capace, in parole più semplici, di contemplare il reale. 

Cosa si vuole indicare con l’espressione coscienza invasa? Sinteticamente, potremmo definire tale ogni coscienza mortificata dal fatto di esser ridotta a semplice contenitore del molteplice e a mera registrazione orizzontale della datità del mondo. Orizzontale, appunto, e proprio per questo inadeguata ad alzare il proprio sguardo sopra lo scenario segmentato degli eventi per cogliere il logos da cui essi stessi dipendono. A ben vedere, il nostro tempo è segnato dall’invasione della coscienza su più fronti: a titolo esemplificativo, pensiamo – assecondando la linea interpretativa di Carmelo Vigna2 – a quelli del politico (nel quale la possibilità di intendersi intorno al bene comune è una possibilità che viene esclusa a priori), dello scientifico e del tecnologico (scenario, questo, agganciato da tempo ad uno statuto epistemologico di tipo ipotetico, fallibilista, impegnato in maniera strettamente operativa) o, ancora, a quelli dei media, della moda e dei consumi di massa (ambiti in cui lo sbilanciamento causato dall’invasione della coscienza – specchio degli umori del Zeitgeist – è osservabile a partire dall’eclisse della fruizione degli oggetti e dal trionfo del loro consumo nella forma dell’usa e getta). Afferma Vigna:

«La recensione del nostro tempo, inevitabilmente un po’ amara, non deve farci dimenticare che in esso è all’opera anche il bene, da sempre e per sempre. Il quale contiene nel proprio grembo le forme migliori delle istanze degli uomini, cui il costume diffuso dà risposte insufficienti, e in alcuni casi anche perverse. Le convinzioni diffuse contengono anche delle verità, ma astratte e come impazzite. Bisognerebbe restituire loro il naturale rapporto con l’organicità della verità. E nel nostro caso questa restituzione passa per la valorizzazione non solo della ricettività della coscienza, ma anche della sua attività»3

Già, lungi dall’esser soltanto passività e dal configurarsi come una semplice repository, la coscienza è, di suo e inevitabilmente, attività unificatrice e lo è per la sua naturale vocazione al riconoscimento della verità (Logos) e per la congenita tendenza ad esprimersi scegliendo (leghein) il vero. Nella sfera del Logos ossia nella sfera dell’Originario, la verità si manifesta come orizzonte regolativo, oltre che dell’infinito, pure del finito; e da tale originarietà la coscienza si sente, oltre che dipendente, attratta e protetta. L’Originario s’impone, allora, come lo spazio luminoso in cui le cose possono appresentarsi esibendo il loro volto autentico; esso, parimenti, informa quell’impulso unificatore che è la vita vera della coscienza e quindi della sua attività, manifestandosi come voce dell’Essere e traccia dell’Eterno nel tempo. Osserva ancora Vigna, a mo’ di conclusione:

«Il post-moderno ha una percezione incerta e oscura dell’originarietà. Il compito è dunque quello di risvegliarne l’avvertenza e di incitare ad oltrepassare la passività della coscienza invasa così da organizzarne il giudizio, giacché il finito non può aver diritto all’ascolto in modo indiscriminato. Deve appunto [venire e] restar giudicato, con tutte le cautele che questa pratica esige: giudicato secondo il vero e il falso, secondo il bene e il male. (…) Senza il discernimento del vero e del falso, senza l’opposizione del bene al male, un essere umano non può sopravvivere nella sua interiorità. Resta, appunto, invaso»4.

NOTE
1. G. Orwell, Fiorirà l’aspidistra, in Il peggiore dei mondi possibili, Mondadori, Milano 2020, p. 43.
2. Cfr. C. Vigna, Sulla coscienza invasa, in Sostanza e relazione. Indagini di struttura sull’umano che ci è comune, Orthotes, Napoli 2016, vol. II, pp. 282-286.
3. Ibi, p. 286.
4. Ibi, p. 288.

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