L’argomento proposto da Passion&Linguaggi è davvero complicato e urgente, ed è curioso che le crisi dello scrittore (cioè il blocco dello scrittore) assurgano a modello del collasso comunicativo che sembra aver colpito il mondo intero. Basato paradossalmente sulla velocità della comunicazione. La velocità è tutto. Quel che conta non è avere qualcosa da dire ma qualcosa da esibire. Successo e denaro arrivano copiosi a chi non ha assolutamente niente da dire. Allora mi chiedo: ha senso comunicare? Soprattutto quel che avvertiamo noi stessi come irricevibile? Dire il poco (nel mio caso) o il tanto che abbiamo da dire. Parlando di questioni sociali o genericamente politiche la irricevibilità segnala subito l’assenza dell’interlocutore. Il linguaggio della politica è ormai simile al linguaggio della pubblicità: un fastidioso suono che non significa niente. Porre in discussione le basi del sistema politico che governa l’occidente vuol dire ammettere che non abbiamo più una lingua in comune. Le grandi (per lo più orrende) tradizioni politiche, che avevano tutte qualcosa di cui vergognarsi, non hanno più alcun rapporto con la realtà, o meglio ne sono semplicemente parte. Come si può comunicare con strutture che hanno l’unico scopo di perpetuarsi? Che fine farà la democrazia occidentale? Che vogliamo idealmente proiezione del pensiero classico. Addirittura. Sto rileggendo con grande piacere Altiero Spinelli e Eugenio Colorni (recentemente ristampati da Il Mulino e da Einaudi) e mi rendo conto di quanto il pensiero dei fondatori stessi delle maggiori istituzioni italiane ed europee sia stato sempre ultraminoritario. Il liberalismo, in tutte le sue sfumature, non è mai esistito in Italia. C’è il cinema di Stato, il giornalismo di Stato (che provvede anche a pagare le pensioni nonostante i contributi non versati), la televisione di Stato, come in Polonia negli anni ’50. È esistito invece, e esiste ancora, l’eterno trasformismo di un popolo di dominati che non ha mai fatto i conti con il suo ignobile passato e che della democrazia non sa che farsene. Lo scrivevo da ragazzo: in Italia i liberali sono meno degli anarchici. Dai sogni federalisti (che erano senza alcun dubbio d’ispirazione meridionalista, credo l’unico vero progetto meridionalista del secolo) alla Repubblica che ora non so a che numero sia giunta (terza?) e in fondo anche all’Europa istituzionale vera e propria: la stessa delusione. L’Italia è sempre Prima Repubblica, le altre sono invenzioni giornalistiche. Ma proprio questo è il vero problema: la Repubblica, cioè lo Stato. Il problema principale di questo fragile e superficiale Paese è nella sua stessa natura. Un errore di tutti, che nessuno riconoscerà mai. Un mostro venuto male, animato da partiti politici che se ne spartiscono le membra. Non sto a menarla per le lunghe ma credo di aver enunciato almeno i titoli delle mie personali (quindi insignificanti) riflessioni. Snobismo? Il solito anti-italiano? Ma no, chi scrive viene dalle periferie e come primi amici ha scelto gli anarchici. La comunicazione è quasi impossibile perché nessuno ascolta più. Le persone si interrompono, sono fiere della loro ottusa ignoranza, mostrano continuamente genitali come scimmie, insomma le persone che ci circondano sono spaventose. E nel desolante panorama politico scelgono naturalmente il peggio, il più bieco populismo, il più ottuso razzismo, i condoni. Ma soprattutto: sono impermeabili. Il dubbio non esiste, perché il dubbio è già pensiero. Pensiamo alle devianze giovanili, al disagio psico-sociale che si diffonde nelle città: l’unico punto di contatto tra questi branchi spontanei e gli altri è il carcere. La Comunità è un concetto ostile, l’associazione è sempre per delinquere. I disperati non votano, gli evasori fiscali sì, e sono il maggior partito italiano. Qualcuno dirà: ma c’è anche l’Italia del volontariato, insomma dei Buoni. Vero, e c’erano anche i fratelli Rosselli, e i Colorni, e gli Spinelli, i Rossi… In effetti parlare oggi è come progettare il futuro essendo reclusi in un’isola deserta. Altrettanto vero (per tornare alla domanda) che gli scrittori hanno dei blocchi, ma non sono quelli raccontati dal cinema e dalle serie tivù, dove il sedicente scrittore si abbrutisce con alcol o altro e lancia oggetti per casa, compresa la macchina per scrivere. Il blocco non sta nell’aridità dell’ispirazione, o più laicamente della scrittura, ma nella mente dell’autore. Non ha esaurito le sue storie (che sono infinite) ma soltanto l’energia necessaria per produrle. Non ci crede più, ne sente l’inutilità. Preferisce il silenzio perché se parla si sente solo. Se non ami più nessuno la vita è sempre più lontana, scriveva Jaccottet. Si scrive sempre per qualcuno. Il grande pubblico, quello che vota ed esprime governi insulsi e pure incredibili macchiette di scrittori, non è raggiungibile da nessuna scrittura. Peccato che la scrittura e il pensiero siano la stessa cosa. Oggi più che mai: chi sa non dice, chi dice non sa.