«Puoi cadere migliaia di volte nella vita,
ma se sei realmente libero nei pensieri,
nel cuore e se possiedi l’animo del saggio
potrai cadere anche infinite volte
nel percorso della tua vita,
ma non lo farai mai in ginocchio,
sempre in piedi»
Giancarlo Siani
«Un’opinione pubblica bene informata
è la nostra corte suprema.
Perché ad essa ci si può sempre appellare
contro le pubbliche ingiustizie,
la corruzione, l’indifferenza popolare
o gli errori del governo;
una stampa onesta è lo strumento
efficace di un simile appello»
Joseph Pulitzer
«L’unico dovere di un giornalista
è scrivere quello che vede»
Anna Politkovskaja
«Uccidete pure me,
ma l’idea che è in me
non l’ucciderete mai»
Giacomo Matteotti
Non è stato un incidente di percorso, né un inedito. La censura della Rai (e i tentativi goffi di rimediare) allo scrittore Antonio Scurati e del suo monologo in occasione dello scorso 25 Aprile, mostra una volta di più come il corto circuito politico-mediatico sia una reale emergenza democratica del nostro paese. Da condizione di base dell’espressione libera del pensiero e del confronto democratico tra punti di vista differenti, l’informazione, e in particolare il servizio pubblico, che esiste a vantaggio dei cittadini, rischia di diventare, ma non da ora, uno strumento di controllo sociale e una macchina di consenso elettorale, longa manus di una politica che, in grave crisi di rappresentanza (ormai quasi il 50% degli aventi diritto non va a votare), cerca alimento ora nella tecnocrazia, ora in (sub)culture identitarie.
Proprio in questi giorni arriva una conferma dello stato critico della nostra informazione. Reporter Senza Frontiere, un’organizzazione non governativa consulente dell’ONU, nello stilare anche quest’anno la classifica sulla libertà di stampa nel mondo, segnala che il nostro paese, nel 2024, si colloca, perdendo posti, al 46°posto, su 180. La cattiva performance italiana è influenzata dalla vicenda, sui generis, del tentativo di acquisizione dell’AGI, una delle principali agenzie di stampa, da parte di un imprenditore, peraltro già proprietario di alcune testate giornalistiche e anche parlamentare della Lega.
Nello stesso rapporto – che induce a pensare quanto vera sia la tendenza a istituire quella società disciplinare teorizzata molti anni fa da Michel Foucault – viene segnalato che “la libertà di stampa in tutto il mondo nel 2024 risulta minacciata proprio da coloro che dovrebbero esserne i garanti: le autorità politiche. Questa constatazione si basa sul fatto che, dei cinque indicatori utilizzati per stilare la classifica, è proprio quello politico ad aver subito un calo maggiore, con una diminuzione globale di 7,6 punti. Secondo il rapporto dell’organizzazione no-profit, nel 2024 si è registrata una ‘chiara mancanza di volontà politica da parte della comunità internazionale di far rispettare i principi di tutela dei giornalisti, in particolare la Risoluzione 2222 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite’1.
La relazione tra politica e informazione si segnala come fattore critico su scala mondiale, a conferma di un’allergia crescente verso il pluralismo, soprattutto in merito a questioni complesse, come le guerre, la pandemia, ecc., dove gli interessi geopolitici ed economici in gioco sono enormi e non possono ammettere dissenso. Uno scenario nel quale anche molti media privati – reti tv, radio e giornali – fanno la loro parte, mostrando una scarsa attitudine all’indipendenza dalla politica e dagli interessi economici. Il rapporto tra libertà di informazione e proprietà delle testate giornalistiche è un argomento democraticamente sensibile che già nel 1990 il giornalista Giorgio Bocca portò all’attenzione dell’opinione pubblica con il libro, tal titolo eloquente, “Il padrone in redazione”.
Il quadro problematico che complessivamente emerge, confligge e stride non solo con i nostri principi costituzionali, condensati nell’articolo 21 della Carta che recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, ma anche con l’art.19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che afferma: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere».
Orientarsi, farsi un’opinione almeno approssimativa su quanto accade nel mondo e nella nostra vita quotidiana localmente e globalmente, immersi in questa giungla mediatica, è pressoché impossibile. A peggiorare le cose è la piega che ha preso la comunicazione social, da un lato popolata anche da quelle “legioni di imbecilli”, secondo la definizione di Umberto Eco di coloro che producono fake news, e dall’altro, governata dal capitalismo cosiddetto “delle piattaforme”, che standardizza i codici culturali e sociali – omologando bisogni e desideri – e riduce i cittadini a consumatori seriali. Parliamo peraltro di un’occasione perduta per allargare gli spazi del dialogo e della democrazia, che molti consideravano, con l’avvento di Internet, potesse generare più poli culturali per animare il dibattito culturale e influenzare e informare le decisioni politiche in un mondo globalizzato.
Ancora in un’altra prospettiva, la cosiddetta piattaformizzazione della vita sociale e pubblica si sta rivelando uno dei maggiori fattori di manipolazione dell’opinione pubblica. Lo ricordava con argomenti puntuali, proprio su questa rivista, un autorevole esperto come Michele Sorice, che in proposito parlava della dimensione manipolatoria dell’informazione via social media che viene definita news engagement. “Si tratta – afferma Sorice – del tentativo di pluralizzare, moltiplicare, l’informazione, allo scopo di cambiare l’agenda, da un lato, dell’opinione pubblica, e dall’altro, delle istituzioni. Questo è un meccanismo intrinsecamente manipolatorio, perché vengono organizzati dei gruppi, oppure troll, o bot, che sono in grado di avviare processi che determinano l’aumento della visibilità di alcuni temi, di alcuni personaggi politici, e un incremento anche di attenzione attorno all’agenda di alcuni attori politici e non di altri; se poi l’influenza sul voto è molto ampia o parziale, è un altro discorso. Le variabili che impattano sul voto sono molteplici e la comunicazione, sebbene importante, è una di tali variabili, che peraltro si collocano in un quadro complesso e multidimensionale”2.
Il conflitto e il dissenso, la partecipazione dal basso, lievito (costituzionalmente tutelato) della democrazia, non trovano gli giusti spazi di rappresentanza nel nostro paese, anzi sono spesso contrastati da una politica autoreferenziale e in forte crisi progettuale, che nelle fasi critiche tende a verticalizzarsi, affidandosi ai cosiddetti “governi tecnici”, guidati da personalità provenienti dal mondo economico e finanziario, che solo nella testa di ingenui cittadini possono essere considerati a-politici. In questi anni è andato impoverendosi il dibattito in Parlamento che è il luogo costituzionale del “parlare e parlarsi”, tra i rappresentanti del popolo, e perciò lo spazio democratico della discussione, del confronto e della negoziazione, al fine di trovare mediazioni e accordi per migliorare la vita dei cittadini, ma anche la qualità stessa della dialettica tra le parti.
Arriva a maturazione, nella contemporaneità, un pensiero che viene da lontano, quello che considera la democrazia – con i suoi tempi, la sua “lentezza” – un sistema frenante del progresso, rispetto al ritmo imposto dal capitalismo, e che quindi necessita, come riteneva Walter Lippmann, epigono di tale dottrina, la guida di un “governo degli esperti”. Su questa base si è sviluppato una sorta di paternalismo che ha fatto breccia anche nel servizio pubblico e nei mass-media del nostro paese, mascherando con la retorica del rigore e della responsabilità interessi politici ed economici enormi, condizionando pesantemente le scelte che riguardano la vita delle persone in carne e ossa. In chiave mediatica, la recente pandemia ha visto trasformarsi l’arena dell’informazione, specchio di quella politica (a reti unificate) in una passerella di tecnici ed esperti che spesso senza alcun contraddittorio, indicavano la rotta da seguire.
In quei giorni difficili abbiamo visto all’opera concretamente il pensiero unico, con a corredo la marginalizzazione di scienziati autorevoli (è toccato perfino al premio Nobel Luc Montagner) e di pensatori non allineati e perciò immediatamente ridotti a no vax . Massimo Cacciari, fine intellettuale e tutt’altro che annoverabile tra i no vax in quel periodo scrisse lucidamente: “Viviamo da oltre un ventennio in uno stato di eccezione che, di volta in volta, con motivazioni diverse, che possono apparire anche ciascuna fondata e ragionevole, condiziona, indebolisce, limita libertà e diritti fondamentali (…) Non si fa che inseguire emergenza dopo emergenza le più varie occasioni, senza coscienza della crisi, senza la precisa volontà di uscirne politicamente e culturalmente. Invece di un’informazione adeguata si procede ad allarmi e diktat, invece di chiedere consapevolezza e partecipazione si produce un’inflazione di norme confuse, contraddittorie e spesso del tutto impotenti”3.
Polarizzazione e semplificazione abitano sempre più il mondo della comunicazione pubblica, per cui “…le persone sono esposte a un diluvio disordinato di informazioni, senza disporre di ombrelli e di criteri di selezione. Le conoscenze sono sempre più frammentate e non facilitano la comprensione e la decisione di fronte alla complessità dei problemi. Un diluvio continuo di informazioni indebolisce la riflessione pacata e saggia. Prima si sottovaluta, poi si terrorizza, poi ci si affida ai tecnici, poi si cerca di afferrare gli umori prevalenti, eludendo così la propria responsabilità. Questo vale per tutti. Ma non dovrebbe valere soprattutto per chi ha più responsabilità: politici e comunicatori in primis. Nella frammentazione e nell’accelerazione delle esistenze, la saggezza non ha gli spazi e i tempi per maturare»4. A scriverlo è Mauro Ceruti, filosofo della scienza ed esperto del tema della complessità, che in più di un intervento post-pandemia ha rimesso in ordine le coordinate del discorso sottolineando quali danni produce “il morbo della semplificazione”.
Il nostro paese avrebbe necessità di un maggiore esercizio del conflitto generativo, potenziando quell’educazione al sapere critico e al confronto tra differenze, fin dalla scuola, come antidoto al conformismo e come cura della democrazia, che è un bene prezioso non acquisito una volta per tutte, come proprio Antonio Scurati ha ricordato: «Se vuoi vivere tranquillo in questo momento in questo paese non devi criticare il governo, credevo di sapere avendo studiato e raccontato gli anni bui del fascismo, invece ho capito un pochino sulla mia pelle che la democrazia è sempre lotta per la democrazia»5.
NOTE
- https://tg24.sky.it/mondo/2024/05/03/giornata-mondiale-liberta-stampa-classifica-2024
- R. Iaccarino, intervista a M. Sorice, L’ illusione della scelta. Come si manipola l’opinione pubblica in Italia
- https://www.huffingtonpost.it/cultura/2021/07/28/news/massimo_cacciari_le_mie_domande_alla_scienza_e_al_diritto_su_vaccino_e_green_pass-5197637/
- https://www.laprovinciacr.it/blog/nicola-arrigoni/244153/se-nell-epoca-della-complessita-va-in-scena-la-pandemia-da-covid-19-mauro-ceruti-il-vero-morbo-e-la-semplificazione.html
- https://www.repubblica.it/cultura/2024/04/28/news/antonio_scurati_fabio_fazio_che_tempo_che_fa_fascismo-422757589/