Ugo Morelli: Se c’è un’esperienza che ognuno pensa di poter definire abbastanza facilmente, quella è la solitudine. Ma è poi così vero che sappiamo di cosa parliamo quando ci riferiamo alla solitudine?
Antonino Pennisi: Fermarsi ad ascoltare in silenzio il linguaggio interiore, ciò che abbiamo da dire a noi stessi, in primo luogo, è un esercizio cognitivo da cui non possiamo esimerci per salvaguardare la salute mentale e la ricerca della felicità.
UM: E’ sensato parlare di solitudine nel momento in cui il mondo globalizzato, la rete, i social, i media ci sono sommergono di contatti e informazioni?
AP: Per i nati digitali la rilevanza e per molti aspetti l’ovvietà del linguaggio interiore e della sua importanza possono non essere scontate. L’igiene della solitudine può anzi atterrire questi giovani, siano essi dalla parte degli influencer o da quella dei follower. E non hanno tutti i torti: è il panico di una cultura interamente alimentata dalle mitologie della comunicazione, in gestazione nel secolo scorso ma pienamente realizzata solo nei primi 20 anni del nuovo millennio.
UM: Di quale esaltazione parla?
AP: E’ sotto gli occhi di tutti anche se non vogliamo vedere. Si tratta di un’esaltazione che è stata linguistica, filosofica, sociale, tecnologica e che hai emarginato, ma a volte anche un umiliato ridicolizzato l’introspezione, la riflessione, la stessa idea di pensare in proprio.
UM: Come stanno effettivamente le cose?
AP: Citando Wittgenstein possiamo sostenere che all’uomo è dato di discorrere con se stesso in completa solitudine; in una segregazione che è di gran lunga più perfetta di quella di un eremita. È possibile dimostrare che il duplice atteggiamento nei confronti della solitudine, la necessità di rifugiarvisi o di rifuggirne, non nasce nelle nostre cronache contemporanee, non è un piagnisteo da boomer, ma si tratta, al contrario, di un’esigenza sempre presente nella storia della cultura. Questa universalità culturale della solitudine nasce a sua volta dalla biologia del cervello umano: la sua natura interiore e linguistica.
UM: Come si può sperimentare la solitudine?
AP: Essenzialmente in due modi: con la mente o con il corpo. Oppure, come dicono le neuroscienze cognitive, con la mente sociale o con quella individuale, nell’interazione o nell’introspezione. È possibile distinguere perciò tra una solitudine psicologica e una biologica.
UM: Perché l’ottava solitudine, allora?
AP: Secondo lo Zarathustra di Nietzsche sono sette gli stati di solitudine che dovrà attraversare l’uomo desideroso di sfuggire al conformismo e ritrovare la propria libertà. Le sette solitudini sono come sette strati di pelle, sottilmente aderenti al corpo della coscienza. Si tratta di percorrere un itinerario penitenziale che dall’emancipazione degli strati di coscienza più legati alla percezione conduce a quelli via via più astratti ed eticamente ingaggiati: dalla comprensione uditiva al completo senso di distacco emotivo dal mondo. Scopriamo così che gli stati di solitudine sono l’effettiva condizione umana che ci permette di liberarsi dalle vecchie pelli.