Alla ricerca della “zona incontro”*

Autore

Ugo Morelli
Ugo Morelli, psicologo, studioso di scienze cognitive e scrittore, oggi insegna Scienze Cognitive applicate al paesaggio e alla vivibilità al DIARC, Dipartimento di Architettura dell’Università Federico II di Napoli; è Direttore Scientifico del Corso Executive di alta formazione, Modelli di Business per la Sostenibilità Ambientale, presso CUOA Business School, Altavilla Vicentina. Già professore presso le Università degli Studi di Venezia e di Bergamo, è autore di un ampio numero di pubblicazioni, tra le quali: Mente e Bellezza. Arte, creatività e innovazione, Allemandi & C, Torino 2010; Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2011; Il conflitto generativo, Città Nuova, Roma 2013; Paesaggio lingua madre, Erickson, Trento 2014; Noi, infanti planetari, Meltemi, Milano 2017; Eppur si crea. Creatività, bellezza, vivibilità, Città Nuova, Roma 2018; Noi siamo un dialogo, Città Nuova Editrice, Roma 2020; I paesaggi della nostra vita, Silvana Editoriale, Milano 2020. Collabora stabilmente con Animazione Sociale, Persone & Conoscenza, Sviluppo & Organizzazione, doppiozero, i dorsi del Corriere della Sera del Trentino, dell’Alto Adige, del Veneto e di Bologna, e con Il Mattino di Napoli.

Dedicato a E. che ha avuto l’idea

L’interlocutore mancato

Ho camminato di notte da piccolo per strade di campagna. Da solo. Ho imparato da mio padre, non con la sua competenza, ma con lui era un’altra cosa. Quando ero solo parlavo ad alta voce per farmi compagnia. Ogni tanto vado a far visita ai miei interlocutori. In base alle stagioni cambiavano, ma il biancospino, la quercia, quella grande, il nespolo, il sorbo e il castagno sono ancora lì che mi aspettano. Sono cambiati, certo, come me del resto, ma interpretano con particolare efficacia il ruolo di testimoni della memoria. Quello che fanno più chiaramente è segnalarmi che si parla sempre e comunque a qualcuno, anche quando ci si parla da soli di notte. Seppur si possa ipotizzare, come fa da ultimo Antonino Pennisi occupandosi di quella che egli chiama l’ottava solitudine, che la principale parte del nostro tempo noi la trascorriamo a parlarci, cioè a parlare a noi stessi, a pensarci bene non siamo mai soli [A. Pennisi, L’ottava solitudine. Il cervello e il lato oscuro del linguaggio, Il Mulino, Bologna 2024]. Non fosse che per la naturale intersoggettività nella quale la nostra individuazione si definisce e dalla quale è impossibile prescindere. Alla ricerca delle condizioni per far evolvere alcune delle importanti e irrinunciabili fondamenta freudiane, oggi sappiamo riconoscere che la complessità dell’inconscio, almeno in parte, si identifica con la nostra costante attività volta a pensarci, ovvero a pensare noi stessi, e a parlarci, cioè a parlare a noi stessi. Sappiamo però che quel pensarci e quel parlarci sono sempre pensare e parlare con qualcuno o con qualcuna.

L’imprescindibilità dell’altro e dell’altra e la constatazione che quando si parla e si scrive si parla e si scrive sempre a qualcuna o a qualcuno, ci pone di fronte ad un paradosso doloroso della contemporaneità. Siamo immersi in una folla virtuale e reale sempre più ampia e siamo allo stesso tempo sempre più soli. Ad essere attaccata è la condizione esistenziale, che abbiamo visto essere imprescindibile per noi, di avere bisogno dell’altra e dell’altro per potersi riconoscere. La narrazione, il dialogo, la scrittura, che non possono esistere senza l’altro e senza l’altra, oggi sono esperienze per molti aspetti costrette ad esprimersi nella deprivazione dell’alterità. E allora per chi e con chi si parla? Per chi e con chi si scrive? Non perché l’altro non esiste ma perché non riesce a divenire, nella maggior parte dei casi, un interlocutore capace di generare rispecchiamento e riconoscimento. Accade allora che ci blocchiamo nel momento perifrastico delle nostre tentate espressioni in un numero sempre più elevato di casi, mentre in una parte non poco rilevante dei casi in cui non ci blocchiamo le nostre espressioni mostrano di rimbalzare come un boomerang ritornando vuote di senso e significato su noi stessi.

Dov’è un circolo dei riconoscenti?

Delle tante cose che devo a Daniele Del Giudice due mi fanno costante compagnia e sono contenute in due sue espressioni: un monito e una domanda. Il monito riguarda la cura da porre nel venire al linguaggio; la domanda è: “Oggi, con chi parli?!” Ovvero dove trovi un interlocutore col quale coltivare aspettative di comprensione cooperativa o conflittuale, ma comunque generativa? Dov’è insomma un circolo dei riconoscenti?

Prima di tutto al linguaggio si viene, alla parola si arriva, e se prevale un tempo in cui c’è un blocco ad arrivarci, conviene interrogarsi sulle ragioni e trarne frutto. Non è scontato il linguaggio, e mentre ci interroghiamo sulla sua crisi, in forma parlata e scritta, non trascuriamo l’abuso corrivo, superficiale, volgare, logorroico e grafomane che del linguaggio oggi prevalentemente si fa. Potremmo scoprire il valore e il vantaggio di attendere e l’inestimabile e prezioso significato del silenzio.  

Dobbiamo certo riconoscere che il valore del venire al linguaggio forse non sta solo nella produzione effettiva di una narrazione, ma anche nell’attesa, nella predisposizione, in quel tempo perifrastico attivo il cui senso è nella sua esistenza in sé, nella sua durata, e in quello che produce non diventando narrazione esplicita. Quel valore trova una sua definizione forse ancora più precipua non solo nel fatto che chi non narra a un altro ha l’importante opportunità di narrare a sé stesso, ma anche nell’astensione dal risolvere in una narrazione l’infanzia di un sentimento, la profondità di un sentire. Se l’uso estetico del linguaggio, nella struttura di legame con gli altri, emerge dalla pausa che interviene tra la cosa e la sua nominazione, può esserci un oggetto senza nominazione, la cui funzione di lievito interiore sta proprio nell’astensione dalla sua narrazione. Se le parole ci mettono in condizione di creare e di fare, conferiscono libertà ma anche vincoli: l’universo infinito da cui provengono, non il silenzio ma il non dire, ha uno statuto che merita maggiore considerazione. Prima di tutto perché il non dire da parte di ognuno è sempre un già detto a sé stessi. E spesso la sua efficacia può essere più elevata per chi si astiene, di quella che sarebbe parlando. Inenarrabile, perciò, non è solo quello che per sue caratteristiche non si riesce a dire con le parole, ma anche quello che assume un potere trasformativo proprio in quanto non accede ad espressione manifesta e condivisa con altri.

Eppure anche chi non narra, anche chi non scrive, sta facendo un gesto per un altro o per altri. Sta cercando di contenere le spontanee e naturali manifestazioni della relazionalità umana e della nostra intersoggettività. Con quali esiti? Generativi o implosivi?  

Logos erchomenos. L’astensione dal risolvere in una narrazione l’infanzia di un sentimento

Andrea Zanzotto in un verso di Filò interrompe il testo dialettale improvvisamente, con un sintagma greco: Logos erchomenos, “lingua che viene”. Il poeta scrive di un narrare “sentito come veniente di là dove non è scrittura (quella che ha solo migliaia di anni) né grammatica: luogo allora di un logos che resta sempre erchomenos, che mai si raggela in un taglio di evento, che rimane quasi ‘infante’ nel suo dirsi”. 

Esiste però un’altra sospensione del raggelamento della possibilità di dire e di scrivere. È la glaciazione della parola per il freddo relazionale e sentimentale nel contesto che dovrebbe accoglierla.  

Non stiamo parlando di quello che non si può dire; di quello che non si riesce a dire; di quello che, dicendolo, produrrebbe solo rumore; di quello che, a dirlo, crea significati meno efficaci del silenzio; di quello che se si dicesse fisserebbe il significato paralizzandolo o saturerebbe il vuoto e la mancanza necessari all’evolversi dei significati; di quello che “ogni bel tacer non fu mai scritto”; di quello che è comunicato dal silenzio generando una profonda ricchezza di significato; di quello che se narrato finirebbe per impedire l’altrui narrazione. 

No. Stiamo parlando – ed è paradossale scriverlo mentre sto sostenendo che non si può più parlare e scrivere – di quello che si potrebbe dire ma non viene detto per assenza di aspettative che sia ascoltato; di quello che si riuscirebbe a dire ma non vale la pena dirlo perché non lo ascolterebbe nessuno; di quello che scrivendolo o dicendolo aumenterebbe solo un’assordante ridondanza; di quello che scrivendolo non romperebbe il silenzio; di quello che esprimendolo aumenterebbe solo la saturazione. Accade allora che il sentimento rimanga non nato.   

Viene un tempo della solitudine, un deserto che bisogna attraversare come condizione per rendere pensabile un tempo a venire che non si sa se verrà. 

Poetica dell’astensione

Siamo di fronte all’astenersi e al negarsi una possibilità per scoprire e affermare qualcosa, per esercitare quella che W. R. Bion, con Keats, chiama “capacità negativa”, in cui si genera affermazione per negazione, creatività e immaginazione come frutto dell’astensione. È stato Freud a sostenere che: “Mediante il simbolo della negazione il pensiero si affranca dai limiti della rimozione e si arricchisce di contenuti che gli sono indispensabili per poter funzionare” [S. Freud, La negazione (1925),Testo originale:“DieVerneinung”, http://gutenberg.spiegel.de/buch/die-verneinung-915/1]. Eppure, e proprio per le implicazioni della negazione, è importante domandarsi perché è così difficile astenersi. Se si può sostenere che “Sempre quel che si può raccontare (anzi: dire) è una trasformazione; sempre il senso si manifesta nella trasformazione, sempre gli “stati” (delle cose, dei corpi, degli animi) sono provvisori.” [S. Bartezzaghi, Algirdas J. Greimas, in segno d’amicizia, doppiozero, 16 marzo 2019], è altrettanto possibile riconoscere che vi sono trasformazioni che possono precedere il racconto, che possono attenere al contenimento di un particolare stato del sentire, da cui per via tacita emerga una consapevolezza e una trasformazione possibile. Si può stabilire, in quei casi una connessione stretta tra immaginazione e negazione generativa.

L’immaginazione, prima ancora della narrazione, è una forte provocazione nei confronti della nostra indifferenza. La propensione alla conferma, si sa, prevale nelle nostre scelte e nei nostri comportamenti, anche quando è evidente che mantenere la consuetudine produrrà esiti indesiderabili. L’arena della rassicurazione, così come quella della negazione dell’esistente e della sua messa in discussione, possono essere tacite, non solo perché prima o poi si esprimeranno in una narrazione, ma anche perché sono la fonte di un processo di trasformazione o di esplosione culturale basate sul primato dell’azione e non della parola, per dirla con Jurij M. Lotman [J. M. Lotman, La cultura e l’esplosione: prevedibilità e imprevedibilità, Feltrinelli, Milano 1993].

Il mero fatto che gli esseri umani parlano si presenta come un campo in cui agiscono due tensioni contingenti e conflittuali, che si annullano, confliggono o si toccano senza fondersi. Da un lato vi è un momento sorgivo, quello in cui la tensione a parlare preme sulla soglia dell’esprimersi; dall’altro l’espressione che si realizza e si fissa in una grammatica, diventando narrazione.

Se la lingua può essere considerata un sistema collettivo di segni, essa si distingue dall’atto individuale di parola in cui la narrazione tende a coincidere con la pura oralità. Andrea Zanzotto propone un’ipotesi poetica da “offrire timidamente ai linguisti”: “il terzo termine tra langue e parole (la cui radicale dicotomia non è sostenibile) potrebbe essere il momento puramente orale della lingua” [A. Zanzotto, Qualcosa al di fuori e al di là dello scrivere, in Le poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 1999; p. 1230]. Prima della pura oralità e della parola narrata sembra esserci la tensione che emerge e si astiene, che si propone all’epifania ma si trattiene sull’orlo del realizzarsi, componendo il tacito mondo dell’inenarrabile, le cui biblioteche sembrano essere parte costitutiva di ogni essere umano. Si profila una poetica dell’astensione che si dà prima che il sentire si annulli nel gorgo delle parole o della scrittura, che troppo velocemente “mi stordisce” e “non mi schiarisce”, come, inesorabile, comunica Zanzotto. Lo stesso poeta, che nel conflitto estetico tra inconscio, dialetto e lingua, ha creato la propria poetica, riesce a riferirsi, con un travaglio che alfine porta alla luce il suo sentire, a quella “bestia pericolosa e ineffabile che giace nella profondità dell’io”: “La lingua frena la possibilità di un movimento assolutamente anarchico, che, dopo aver eroso la sintassi, tende ad erodere la morfologia e il lessico, nella direzione di un’espressione che dovrebbe coincidere con l’ineffabilità del grido” [A. Zanzotto, Lingua e dialetto (appunti), 1960, ora in A. Zanzotto, In nessuna lingua in nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938-2009, Quodlibet, Macerata 2019; pp. 17-18]. Potrebbe esplodere in grido, e di fatto lo fa, quel sentimento di non riuscire a dire: un grido spesso interiore, rivolto al proprio mondo interno, fatto di tensione e di rabbia, di riservatezza e di astensione, di pressione e attesa da parte degli altri, di rassicurazione nel silenzio e di risentimento verso se stessi per non essersi espressi. Quel grido può essere anche esteriore, come quello di Bobò, l’attore che ha lavorato con Pippo Del Bono, e allora il venire al linguaggio si ferma, per diverse ragioni, dando vita a un suono pre-linguistico che dice non dicendo: una sorta di semantica senza grammatica. 

Il compito infinito

La potenza del dialogo sta nella sua incertezza. L’incertezza non riguarda solo l’esito di ogni dialogo, ma anche il continuo gioco del dire e non dire. Il dialogo rinvia, in fondo, alla continua possibilità di immaginare i suoi esiti. Se non ci fosse l’incertezza dell’approssimazione e l’immaginazione di esiti possibili ma non determinati, il dialogo non avrebbe senso e forse non esisterebbe. Né la razionalità del processo e degli esiti, né la curiosità che l’altro suscita, né l’astensione, né la sola incertezza degli esiti dell’approssimazione fanno del dialogo quello che è, bensì quello che col dialogo si crea e si può creare. Il dialogo è, perciò, il luogo del possibile. Del resto un dialogo, se è effettivo, vive alla temperatura dell’inenarrabile, della sua crisi e della sua interruzione. 

Michel Foucault, con la densità del suo rigore, dichiarò in una delle sue ultime interviste: “niente è più inconsistente di un regime politico che è indifferente alla verità; ma niente è più pericoloso di un sistema politico che pretende di prescrivere la verità. La funzione del ‘dire il vero’ non deve prendere la forma della legge, così come sarebbe vano credere che risieda a pieno titolo nei giochi spontanei della comunicazione. Il compito del dire il vero è un lavoro infinito: rispettarlo nella sua complessità è un obbligo di cui nessun potere può fare economia. Salvo il caso in cui s’imponga il silenzio della servitù” [M. Foucault, Le souci de la verité, “Magazine littéraire”, maggio 1984]. Se risulta problematico essere indifferenti alla verità, ma allo stesso tempo è pericoloso un regime politico che la prescrive, allora in quali direzioni ci interroga la nostra ricerca del vero, comunque presente? Mettere la verità in prescrizione normativa è pericoloso e tendenzialmente totalizzante; allo stesso tempo ridurre il rapporto con la verità alla scivolosa situazione del tutto è vero e tutto è falso porterebbe il legame sociale a una deriva di indifferenza. La verità in fondo è una ricerca, un lavoro senza fine che richiede l’intimità dell’astensione e l’accettazione dell’indicibile, ma è soprattutto un compito ineludibile, seppur il suo valore consista in una continua domanda. Solo laddove si impone il silenzio della servitù il problema non esiste perché è eliminato. Tra democrazia, totalitarismo e servitù, quindi, si pone la questione della verità, della tensione verso la verità, del senso della verità, come lo aveva definito Aldo Giorgio Gargani. La verità come “glassy essence”, come rispecchiamento, è probabilmente una dei principali vincoli alla critica e all’invenzione dell’inedito. Scrive Gargani:

“In luogo della verità come rispecchiamento, come glassy essence, diventa più interessante il gioco della prassi, per esempio inventare o escogitare una socità più bella e più giusta, anziché scoprire la società più vera. Si tratterà di un’etica senza filosofia, senza teoria, senza teoremi, lemmi e scoli, sarà qualcosa che solo la prassi (non per questo cieca) potrà generare entro i vincoli dei contesti e delle situazioni storiche. E il vero, allora, lo perdiamo? Ma no, il vero sarà, come sempre sarà e come è sempre stato, la conseguenza tardiva di un gesto sociale che l’ha preceduto, che gli ha preparato il posto da riempire insieme all’ordine della sua costituzione” [A. G. Gargani, Il vincolo e i codici simbolici, in A.A.V.V., Il vincolo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006; p. 86]. Non è probabilmente affermando una verità che ci realizziamo o si valida una conoscenza, ma è nel dubbio e nella possibilità di non dire o dire di no che ci individuiamo e troviamo la nostra distinzione di specie. Il “potere di non” sta probabilmente alla base della libertà e della democrazia e fonda il dialogo che di quelle due esperienze è il principale fattore costitutivo. Per essere diventato fondamento dell’agire politico e progettuale umano il “no” deve avere a che fare con la nostra intimità, con la nostra storia e deve probabilmente avere correlati nella nostra esperienza evolutiva di specie. 

Oltre

Quando siamo diventati capaci di concepire l’oltre e di riconoscerne l’importanza? È verosimile ritenere che ciò sia accaduto con l’inizio della capacità di contenere il silenzio riflessivo, di iniziare a parlarsi nel senso di parlare a sé stessi, da cui l’evolversi del pensiero simbolico e della cooperazione e condivisione comunitaria. Il ruolo del pluralismo e della molteplicità condivisa, a partire dalla riflessione sulla molteplicità interiore, così come le funzioni svolte dalla comunicazione cooperativa, sembrano essere stati particolarmente rilevanti per tendere ad andare oltre i comportamenti individuali immediati e pratici e la semplice imitazione della consuetudine. Ciò non vuol dire che la forza dell’abitudine, la potenza rassicurante del consueto, la disposizione alla ripetizione e al consenso per ciò che è noto e ripetitivo si siano dileguate. Tutt’altro. Dire di sì all’esistente ha convissuto e convive con la capacità di astenersi dal narrare e dire di no. Prove evidenti mostrano, anzi, come la propensione alla conferma dell’esistente tenda ad essere prevalente in ogni manifestazione umana, connessa com’è ai sistemi emozionali di base e alla memoria filogenetica con tutte le implicazioni che ne derivano in termini di necessità di tutela dalla paura e dall’incertezza. Parlare, in fondo, assolve e rassicura. Solo così si può andare oltre, potendo contare su una base sicura, che però consegna sempre, in una certa misura, al rischio del conformismo e della rinuncia alla ricerca della discontinuità. Del resto “oltre”è sia un avverbio di luogo che di tempo e rimanda, pertanto, al tempo e allo spazio. Andare oltre, perciò, indica sia la disposizione a porre al centro il futuro e non solo il presente, sia la possibilità di creare spazi di possibilità rispetto all’esistente: in entrambi i casi la capacità di contenersi e contenere è fonte del possibile.

Ridursi e ridurre al silenzio

La sorella maggiore di Ludwig Wittgenstein, Hermine, scrive, nei suoi ricordi, di un dialogo col fratello, dopo la sua decisione di rinunciare alla filosofia e di fare il maestro elementare.

“La sua seconda decisione, quella di scegliere una professione del tutto inappariscente, e se possibile di fare il maestro elementare in una scuola di campagna, fu per me in un primo tempo incomprensibile, e poiché noi fratelli siamo abituati a esprimerci per immagini, gli dissi allora, in occasione di una lunga discussione, che immaginarlo come maestro elementare, lui con la sua raffinata intelligenza filosofica, era come immaginare uno che volesse usare uno strumento di precisione per aprire una scatola di latta. Ma Ludwig mi rispose con un paragone che mi ridusse al silenzio. Mi disse, infatti: ‘Mi ricordi un uomo che guarda attraverso una finestra chiusa e che non riesce a capire gli strani movimenti di un passante; non ci riesce perché non sa quale tempesta si è scatenata là fuori, e che quell’uomo forse fa fatica a tenersi in piedi” [L. Wittgenstein, Familienerinnerungen, a cura di  Ilse Somavilla, Haymon, Insbruck-Wien 2015]. 

Appare evidente come non vi sia possibilità di relazione se non come approssimazione, in quanto non c’è “logos” senza “dia”: (intersoggettività) dia-logo; e non c’è immagine senza azione (azione): immagin-azione. Entrambe sembrano trarre la condizione di possibilità dalla sospensione, dall’ascolto, da un certo livello di astensione: dal riconoscimento, in fondo, del valore di una delle proposizioni più note del suo Tractatus Logico-Philosophicus, la 5.6, in cui Ludwig Wittgenstein sosteneva che “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Il primato dell’azione e dell’intersoggettività nell’esperienza umana sono possibili in quanto c’è uno spazio interiore, un vuoto provvisorio, che consentono di riconoscere che ogni presenza è unica e per il fatto stesso di essere presente implica una affermazione che è anche negazione, sia a livello individuale che collettivo.

Far lavorare in noi la parola

Più che un trasferimento, a realizzarsi è una “metamorfosi”, di un mutarsi non tanto l’uno nell’altro, ma di un “divenire altro” da quel che si era. “Species vultus eius altera”: come nel Vangelo di Luca in cui il volto diviene, non l’altro, ma altro da quel che era fino a divenire quel che sarà grazie a quella contingenza intima, relazionale e intersoggettiva. Soprattutto perché oggi sappiamo che l’uno e l’altro sono già, prima di svolgere un incontro, prima di quello specifico incontro, una relazione, una intersoggettività che precede la loro provvisoria individuazione, il proprio essere in-dividuo, prima di essere almeno provvisoriamente un “autos”. Oggi sappiamo che “autos” e “eteros” si diventa dopo essere intersoggettivi; anzi è perché si è intersoggettivi che si può divenire soggettivi; che l’intersoggettività precede e genera la soggettività possibile. A condizione che la parola dicibile lavori in noi prima di essere detta o senza che sarà mai detta. Il dialogo diviene il crogiolo in cui le resistenze soggettive indaffarate provano a rinunciare ai propri arroccamenti e grazie ai tentativi in termini di una prassi di “meno io” cercano di conquistare una “zona incontro” frutto di un ritiro identitario in grado di divenire altro, non sopprimendo le differenze, ma avanzando verso una ridefinizione che utilizzi l’intersoggettività e la relazione per accedere a una seppur parziale metamorfosi che porti entrambi, non a trasferire qualcosa di sé nell’altro, ma a divenire altro. La rimozione più profonda della forza della psicoanalisi consiste forse nel meccanicismo del trasferimento e del controtrasferimento in cui l’asimmetria non è al servizio dell’evoluzione ma della ortopedia della trasformazione di sé e dell’altro. Laddove, invece, ciò che rende tale ogni dialogo, – e quello del discorso amoroso e terapeutico in particolare -, capace di sostenere l’evoluzione è la “zona incontro” in cui l’opportunità effettiva è quella di divenire altro nell’essere ciò che si è, nel trasformare sé stessi grazie anche all’inenarrabile. Secondo la potenza poetica di Paul Celan, è lo spazio di “nessuno”, della deflagrazione di ogni presenza, la porta di accesso a sé stessi:

Nessuno con terra e argilla ci forma,
nessuno soffia nella nostra polvere.
Nessuno.

Laudato tu sia, Nessuno.
Per amor tuo vogliamo
fiorire,
incontro a te
venire. 

Un nulla eravamo,
siamo, fiorendo,
un nulla resteremo:
rosadinulla,
rosadinessuno.

Con
il pistillo animachiara,
lo stame cielodeserto,
la rossa corolla
del verboporpora che noi cantammo,
sopra, oh! sopra
la spina.

Forse l’inenarrabile, l’astensione, la capacità di negare, di dire di no, nascono dall’essere diventati noi, con l’avvento evolutivo del pensiero simbolico, consapevoli della nostra condizione di derivare da Nessuno, per dirla con Paul Celan. 

La scoperta riflessiva dell’autofondazione è anche dolorosa e angosciante.

*Una versione più breve di questo testo appare su doppiozero.com, 30 aprile 2024

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