Ripetizione e ricordo sono lo stesso movimento, tranne che in senso opposto: l’oggetto del ricordo infatti è stato, viene ripetuto all’indietro, laddove la ripetizione propriamente detta ricorda il suo oggetto in avanti. Per questo la ripetizione, qualora sia possibile, rende felici, mentre il ricordo rende infelici. Sotto lo sguardo di Søren Kierkegaard, anzi del suo ironico alter ego Constantin Constantius che scrive queste parole, la continuità della cronologia non è che illusione, e piuttosto il tempo fluisce dal presente verso il passato, nel modo del ricordo con cui esso viene ripetuto all’indietro, e verso il futuro, allorché la stessa modalità del ricordo si rivolge in avanti nella ripetizione. Per questo, quasi a smentire quella sentenza di infelicità nei confronti dell’atto del ricordare, Kierkegaard dirà subito dopo che c’è bisogno di giovinezza per ricordare.
E però, aggiunge ancora, c’è bisogno di coraggio per volere la ripetizione. Coraggio è ciò che porta e sorregge la luce del futuro e la scorge nel tempo presente, e coraggio è riconoscere la luce nel presente e portarla nel futuro.
E questo coraggio è il salto, è ciò che interrompe il continuo del tempo, e lascia che la luce vi prenda stanza. Ma è solo nel mondo della ripetizione, solo nel momento in cui ci scopriamo già da sempre a casa ed avvertiamo la novità inaudita di tale essere a casa, che la luce del nuovo può prendere stanza. Come nei gesti ripetuti di due che si amano, e che sono sempre diversi proprio perché si ripetono, oppure come nel mondo che si apre allo sguardo del bambino.
Scrive Walter Benjamin in un suo frammento autobiografico: Egli vuole la felicità – il contrasto con cui l’estasi dell’unicità, della novità, del non ancora vissuto, è unita a quella beatitudine della ripetizione, del recupero, del vissuto. Non saprei immaginare migliore descrizione della felicità dell’infanzia se non in questa estasi, e l’estasi altro non è che il momento (il vissuto? o piuttosto il riconoscimento? duplicità inscindibile, o irrisolvibile) in cui ripetizione e salto sono infine la stessa cosa.
Ripetizione e unicità, vissuto e non vissuto, diventano così forme di svolgimento di una unica immagine della temporalità, addentrandosi nella quale è possibile ritrovare la strada perduta della felicità, o forse della nascita: Insegnami a ripetere/ il futuro ora,/ mentre nasciamo (Inger Christensen).
Ricordare e ripetere sono le due differenti modalità dello sguardo sulla medesima forma temporale del salto: ricordare ciò che non è accaduto; ripetere il futuro mentre si nasce, e dunque innalzarsi sino a quella disposizione nei confronti del mondo che dice la felicità possibile.
Ma una simile rappresentazione del salto e della nascita (del sé?) risulterebbe totalmente falsata se al suo cuore non risiedesse, nel dolore della cesura, lo snodo decisivo del movimento con cui l’uno è perduto nell’estasi della ripetizione e del nuovo.
Nella decorazione dell’abside della stupenda Basilica sotterranea di Porta Maggiore a Roma si trova la raffigurazione del Salto di Saffo dalla rupe di Leucade, alla cui significazione misterica Károli Kerényi rinvia nel suo studio sul labirinto: immergersi nelle oscure caverne della morte e volare via nella vita.
Rigenerazione nella vita: Eros accompagna e guida Saffo nel salto, mentre un Tritone distende un drappo ad accoglierla.
Il presente – che ricorda il suo oggetto in avanti nella ripetizione – che lo ripete nel ricordo all’indietro – è crisi, scelta, cambiamento, discontinuum come carattere fondativo della vita.