Sì, Agostino aveva ragione. Siamo fatti di qualcosa che non c’è: il passato e il futuro. Ma oggi ne siamo terrorizzati e cerchiamo nel presente non l’eterno, come diceva Baudelaire, ma una ripetizione che si tinge di un nuovo incessante, ma un nuovo che si deteriora ad ogni ripetizione come una droga che ti chiede una dose sempre più forte per mantenere un falso equilibrio. Non riusciamo a togliere nulla, non riusciamo a sottrarci, non riusciamo a ritrarci.
In un’epoca in cui non siamo più in grado di distinguere tra il normale e il patologico, e non sappiamo più bene dove stia la differenza tra una gioia sana e un piacere insano, tra la tristezza e la depressione, tra una sofferenza che ci fa crescere e un dolore che ci opprime, vorrei stare dalla parte della malinconia. Essa ci toglie il nostro bisogno di autoinganno facendoci sentire la mancanza, il limite, l’irreversibile, l’irraggiungibilità di una meta, l’invalicabilità di un confine, l’infinito di un orizzonte, l’impossibilità di sapere cosa c’è oltre la morte; abbatte il delirio di onnipotenza e ci fa capire che il tempo avanza e muta le cose e noi stessi; ci porta all’ironia, mettendo in dubbio noi stessi ogni qual volta ci prendiamo troppo sul serio; ci fa volgere lo sguardo al passato con umiltà e commozione; ci spinge verso un futuro che non c’è e potrebbe non esserci mai; ci evita l’inganno di una falsa pienezza di vita quando invece cerchiamo soltanto di sfuggire a noi stessi; deride la furbizia e la mette dove deve stare, negli anfratti dei servi; non ci fa dimenticare la morte. Ci dà una coscienza e una dignità. Le stesse che possiede Hirayama, il protagonista di Perfect Days, l’uomo analogico che toglie il superfluo, sottraendosi all’abbondanza e al caos, per rimanere sé stesso capace di cogliere il bello tra gli anfratti delle periferie di Tokyo. La malinconia è l’inevitabile portato della vita umana. Ne abbiamo oggi così tanta paura che la identifichiamo con una malattia, la depressione. Ma la malinconia non lo è. Neppure la tristezza lo è. Perché tendiamo a confonderle con la depressione? Perché attribuiamo a un atteggiamento sano il marchio della malattia? Semplicemente perché rifiutiamo la morte come una parte inevitabile della vita. La tristezza è la sofferta consapevolezza dello scarto incolmabile tra il pensare e il fare, è il senso del limite, è la ferita narcisistica. Solo una cultura invasa dall’insano senso di onnipotenza può rifiutare di accettare questo inevitabile scarto che dà il segno inequivocabile della nostra mortalità.
Perché stiamo estendendo quasi senza confini la medicalizzazione dei nostri sentimenti e le nostre passioni? Non siamo più in grado di togliere nulla. Temiamo anzi che qualcosa ci venga tolto e dunque facciamo fatica a comprendere l’abbandono. Quello del Dio della Kabbalah di Isacco Luria che si ritrae per creare il mondo, quello del Padre che lascia morire il Cristo in croce. L’abbandono significa rinuncia all’onnipotenza. L’abbandono implica un mutamento e poiché, diceva Giambattista Vico, siamo noi umani a fare la storia e per questo possiamo conoscerla, tale conoscenza comporta dolore perfino quando, mutate le cose, dopo la morte di chi era e non è più, si rinasce, ci si affaccia a nuova vita con un sentimento misto a sollievo, stupore, piacere, forse entusiasmo, ma anche colmo di un passato che ha lasciato le cicatrici, segni indelebili di ferite profonde.
Al momento dell’abbandono non si ha mai la certezza di una nuova vita, bensì soltanto di quella vecchia che sta giungendo alla fine. Ecco perché, ci narra Matteo, Gesù, prima di morire sulla croce, con un misto di tristezza e di rabbia, si rivolge al Padre ed esclama: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (v. 46). Morendo da uomo Gesù provò l’umana e mortale sensazione dell’abbandono. Il Padre l’aveva abbandonato. Gli aveva tolto la divinità. Era solo davanti a sé stesso, e senza speranza. Stava pagando a caro prezzo la sua autonomia di umano. Il Padre si era ritirato, come il Dio della Kabbalah luriana che, ritraendosi, lascia spazio al mondo, agli uomini, alla storia, come la madre di Winnicott che concede al bambino l’illusione di agire da solo. Allora la domanda è: in una relazione, dove passa la linea di confine, certo molto sottile, tra l’abbandono dell’altro e il lasciargli spazio per la conquista della propria autonomia? Una madre si toglie lasciando al bambino l’illusione di essere autonomo mentre il piccolo cerca di afferrare da solo un oggetto. Togliendosi, dà spazio alla sua autonomia, senza per questo abbandonarlo. Il bambino lo sa e non lo sa. Vi crede e non vi crede, così come farà un po’ dopo nel gioco. In ogni caso può percepire con la coda dell’occhio la presenza rassicurante della madre che, anche se si è tolta, gli sta accanto. Insieme stanno costruendo un mondo intermedio. Ma il Padre abbandona veramente il Figlio, gettandolo nella dolorosa solitudine di una scelta. Nessuno può aiutarlo. La Madre non l’abbandona, gli sta accanto fino alla fine, ma non può colmare il vuoto lasciato dal Padre. C’era di che smarrirsi. E del resto, l’autonomia è preceduta dallo smarrimento e precede il riconoscimento, cioè il ricongiungimento con il Padre quando ormai il Figlio è diverso, colmo della dolorosa esperienza di una scelta autonoma, fatta con la Madre accanto, come la madre di Winnicott con il suo bambino. Gesù era forse malato? Era forse patologicamente depresso quando invocò il Padre? Se così fosse stato o se così dovessimo interpretare la tragedia della crocifissione, faremmo cadere nel ridicolo un evento che ha modificato la storia sia dei credenti sia dei non credenti, nel bene e nel male. La sua fu la passione di un uomo sano costretto a soffrire le pene inflitte dalla volontà del suo popolo e a sentire, nonostante la presenza della madre e dei suoi discepoli, la solitudine dell’autonomia delle sue scelte e il prezzo dell’abbandono del padre che aveva tolto sé stesso, ma per la cui assenza egli prova rabbia, delusione, disperazione, tristezza. Il Dio dei Vangeli abbandonò Cristo per lasciargli spazio, così come aveva fatto il Dio di Isacco Luria che, creando dal nulla, si contrasse, si ritirò e lasciò spazio agli uomini, alla storia, alla responsabilità, al male, alla mortalità. Per creare nuovi mondi intermedi si dovettero spezzare quelli vecchi.
Tristezza e malinconia esprimono, non solo emotivamente ma anche cognitivamente, il senso e la verità della scissione e dell’incompletezza, ovvero della inevitabile condizione di mortalità che, per il fatto di toglierla, si accompagna alla vita.
Hiryama di Perfect Days è l’equivalente della bandiera Bianca che il Papa sembrava chiedere agli Ucraini: la constatazione che la storia sia finita e che solo nel ritrovare dentro di sé conforto ed equilibrio possiamo dare un senso alle sperequazioni che ci circondano. Continuo a pensare che il concetto di umanità debba essere perfezionato con una tendenza permanente all’eguaglianza che non può non essere perseguito con una conflittualità che renda il togliere un’azione asimmetrica, più si deve togliere a chi ha più. Senza questo contesto malinconia e tristezza sono il suggello ad una barbarie incompatibile con la civiltà