Come per gli dei, così per l’identità: l’interesse sta nel domandarsi come e perché li inventiamo, dal momento che non esistono.
Tra le tante possibilità aperte dall’atto del togliere, quella del liberare è forse la più complessa. Se già togliere un peso produce un sentimento di sollievo, rimuovere un ostacolo apre al senso del possibile. Ciò accade in particolare se l’ostacolo si è proposto e si propone come una meta, uno scopo, un obiettivo e, come tale, si caratterizza positivamente, si propone come un valore da perseguire, svolge una funzione rassicurante, troppo rassicurante. Il rovesciamento di un costrutto ritenuto indiscutibile fino all’ideologia, per quanto difficile e duro da portare avanti, ha un potere liberatorio e può far vedere la vita da un altro punto di vista. Se poi quel rovesciamento riguarda un fenomeno che è addirittura divenuto senso comune indiscutibile in nome del quale si commettono offese, esclusioni, negazioni e distruzioni dell’altro, allora vale la pena fargli spazio, sostenerlo, valorizzarlo.
Da togliere, nel tempo attuale, vi sono poche certezze e pochi fenomeni perniciosi come l’identità. In primo luogo per la falsità del costrutto, che non ha corrispettivi né giustificazioni nella effettiva costruzione del comportamento e dell’esperienza di noi umani. Non ne ha nella storia individuale, in quanto la nostra vita è possibile grazie al suo divenire: basterebbe bloccare per poco tempo il continuo flusso del respiro, del metabolismo, del ricambio, per trasformarsi in altre sostanze che sarebbero comunque un divenire e non un essere. È perché diveniamo che siamo vivi nella forma attuale. Non ne ha nella storia evolutiva sulla Terra e nel cosmo dove il tratto distintivo di quel che consente di distinguere la vita dalla non vita è proprio il contrario del ritorno dell’identico.
Allora dove e come esiste l’identità? Nelle nostre menti alla disperata ricerca di una fissazione del divenire, confondendo concrezioni provvisorie e precarie per loro stessa natura in reificazioni stabili che stabili non sono, ma solo simulacri in nome dei quali assestare uno scafandro protettivo intorno all’evanescente invenzione dell’io.
Gli artisti ci arrivano sempre prima e non serve altro che il silenzio di fronte a un’opera di Francis Bacon, per sentire come si sgretolano le aporie dell’identità.
Così come si disarticolano, similmente al Libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa, le pretese fissiste della coincidenza con sé stessi nelle superfici specchianti di Michelangelo Pistoletto.
L’ossessione per l’autentico produce mostri e finisce per ottenere esiti autistici. Se sostenuti collettivamente quegli esiti si sono fatti nel tempo, e si fanno oggi, totalitari. Mentre plaudiamo giulivi alla sicurezza della società del controllo, non ci accorgiamo che siamo diventati sicuri da morire.
Togliere l’identità vuol dire lavorare per un rimescolamento profondo delle configurazioni tuttora dominanti con cui leggiamo noi stessi. Quelle configurazioni sono basate su rassicuranti dualismi e linguaggi definitori come vivo-morto, sano-malato, caldo- freddo, dentro-fuori, maschio-femmina, uno-molti, natura-cultura, catturando anche i tentativi emergenti di inedite metamorfosi e le possibili ibridazioni, e riportandoli alla trama sottostante e calcificata di vecchie strutture normative e imperative.
Gli effetti visibili di questi orientamenti dominanti sono una civiltà ecocida; gli essenzialismi che negano la performatività di genere; i privilegi e le disuguaglianze colonialiste a livello geopolitico. Tutto in nome dell’identità. Non sono pochi coloro che hanno avvertito, accanto agli artisti, l’urgenza di togliere l’identità e le sue tragiche conseguenze. Sono prospettive di critica dei dualismi ontologici, delle grandi partizioni, delle linee di dominazione biopolitiche (Merleau-Ponty, Foucault, Derrida, Latour, Butler), non solo attraverso un’analisi genealogica delle forze che hanno sostenuto e ancora sostengono tali configurazioni, ma anche in vista di un loro possibile riassemblaggio o rimescolamento epocale.Quel contromovimento si è evoluto e ha messo in discussione lo stesso principio di individuazione, evidenziando il divenire che ci rende umani, oltre che l’invenzione dell’individuo moderno inteso come indivisibile, univoco, stabile. Togliere l’identità con un inedito bricolage delle appartenenze, comprese le mutazioni tecnologiche e le urgenze climatiche che invitano a ripensarci tra l’umano e il non umano, disvelando ancora una volta l’inconsistenza del pensiero binario e dualista (Descola, Haraway, Stengers, Morton, Chakrabarty, Remotti), può essere possibile mentre noi umani ci affacciamo sulla soglia del baratro della nostra autodistruzione. In queste condizioni difendere l’identità assume risvolti tragicomici.