Hamm: Una pulce? Ci sono ancora delle pulci?
Clov (grattandosi): A meno che non sia una piattola.
Hamm (molto preoccupato): Ma a partire di lì l’umanità
potrebbe ricostituirsi! Per amor del cielo, acchiappala!
Clov: Vado a prendere la polvere.
Samuel Beckett
Lo scarto fra ogni opera d’arte
e la realtà immediata di una cosa qualsiasi
è diventato troppo grande
e a questo punto non vi è più che la realtà
ad interessarmi
Alberto Giacometti
Il cinismo è il tentativo riuscito
di vedere il mondo come realmente è.
Jean Genet
In mancanza della felicità gli uomini
si accontentano di evitare l’infelicità
Sigmund Freud
L’umanità è (s)finita ma ancora non ne prendiamo atto. E continuiamo ad ingannare il tempo, in attesa non si sa di chi e di cosa, parlando, come si fa in ascensore tra (s)conosciuti che abitano nello stesso palazzo, delle previsioni del tempo.
La vita biologicamente si allunga, ma è diventata una condanna a morte lenta e dolorosa, per l’estraniazione del sé e l’uso strumentale dell’altro da sè, saturata fino all’inverosimile da passioni tristi, amuleti e cianfrusaglie materiali e immateriali. E soprattutto dalle parole. L’illusione è un autogol: pensare di poter sconfiggere la precarietà, l’incertezza, la paura, l’angoscia, e la morte stessa.
Lo scrittore Gianni Celati ha usato una bella e inquietante espressione per invitarci a cogliere il tragico che attraversa la nostra esistenza, dove insieme alle differenze tramontano la comunicazione e il desiderio: “Ci hanno mescolato le anime e ormai abbiamo tutti gli stessi pensieri. Noi aspettiamo ma niente ci aspetta, né un’astronave né un destino”.
Ci siamo dentro fino al collo, ma non riusciamo a vedere, o non vogliamo vedere, o non sappiamo vedere. Chi si è occupato di “mescolare le anime” e di tessere il pensiero unico, si è anche preoccupato di infrastrutturare un apprendimento funzionale, depotenziando la dimensione simbolica dell’umano e perciò il sapere critico, mettendo fuori gioco il corpo, che è “quel piccolo nucleo utopico a partire dal quale sogno, parlo, procedo, immagino, percepisco le cose al loro posto e anche le nego attraverso il potere infinito delle utopie che immagino” [M. Foucault, Utopie. Eterotopie, Edizioni Cronopio, 2006].
Se questa è la realtà, essere realisti è un ostacolo per capire chi siamo, dove siamo, e dove stiamo andando. Da realisti a compassionevoli, peraltro, il passo è breve, per rendere a noi stessi accettabile un ordinario inaccettabile, autoassolvendoci da qualsiasi responsabilità.
Arrivare all’osso della questione vuol dire invece scarnificarlo. Non per tornare indietro, cosa impossibile anche alleggerendo un po’ il sovraccarico del superfluo e riducendo la bulimia narcisistica, ma per riconnettersi all’originario e ritrovare una dignità dell’essere e dell’esistere. Accettando il limite e la fatica della condizione umana, e quel corpo a corpo con l’assurdo che la attraversa, nella ricerca di un senso mai dato una volta per tutte, del quale, rifacendosi al mito di Sisifo, parlava Albert Camus: “In precedenza si trattava di sapere se la vita dovesse avere un senso per essere vissuta; appare qui, al contrario, che essa sarà tanto meglio vissuta in quanto non avrà alcun senso. Vivere un’esperienza, un destino, è accettarlo pienamente” [A. Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, 2013].
Ma bisogna prendersi sul serio fino a un certo punto, suggerisce con la sua drammaturgia Samuel Beckett, trattando la tragedia umana con l’umorismo, ponendo l’uomo in una cornice grottesca, quasi ridicola, proprio per depotenziare quel linguaggio borghese, filosofico teologico sociologico che lo fa sentire come Dio, e perciò perdere di vista la sua finitudine. Ridurre gli uomini al silenzio – in quanto la parola sovrasta l’azione – e mostrarli nudi sulla scena del mondo, è la via maestra per illustrare la tragedia dell’umano. Perché ride Beckett?, si chiede in un bellissimo saggio Annamaria Cascetta, studiosa del teatro e della drammaturgia: “Ride certo, in primo luogo, per scaricare la tensione di una situazione ineludibile in cui l’uomo è collocato e di cui ha coscienza (coscienza tragica appunto); ride, in secondo luogo, per demolire le illusioni, le maschere, i veli, le incrostazioni che gravano nella testa dell’uomo; ma ride, in terzo luogo, soprattutto, per sgombrare il campo e assumere un diverso punto di vista, per saltare di piano. La pars destruens del riso colpisce e liquida anzitutto la tradizione della ‘tragedia’ (forma storica di elaborazione della coscienza tragica), la cultura della tragedia, la sua sfida, la sua pretesa eroica, il conflitto e la contrapposizione irriducibile, la morte sacrificale, l’autodistruzione, l’accanimento nella trasgressione del limite, il corpo a corpo con un assoluto che l’uomo ha avuto la presunzione di rappresentarsi, tempesta in un bicchier d’acqua, parola ingannevole” [A. Cascetta, Una partitura per ‘passer le temps’. En attendant Godot di Samuel Beckett, Vita e Pensiero, 2,1997].
E’ la fenomenologia della condizione umana che Beckett porta in scena, con l’ostensione del corpo, che stanco, malato, fiaccato, invecchiato, purchessia rimane la condizione primaria della relazione con l’altro e perciò della comunicazione, che tuttavia, intrappolata in un linguaggio usurato, non genera nulla e non crea circolarità. Quel corpo la cultura occidentale l’ha sciaguratamente separato dal cervello e dalla mente, dal cuore, ostacolando in tal modo la consapevolezza individuale dell’intersoggettività come dato fisiologico e perciò le potenzialità di sviluppo della cooperazione tra le persone: “sbriciolatesi le parole, attraverso un’estrema via del ‘levare’, restano i piani dell’esperienza ‘fisica’ e dell’esperienza ‘mistica’, le relazioni immediate, anteriori a ogni categorizzazione, cui sembra traguardare positivamente il mondo di Beckett” [A. Cascetta, Una partitura per ‘passer le temps’, op. cit.].
L’uomo di Beckett che tanto chiacchiera quanto nulla ha da dire sul mondo e su sé stesso, e soprattutto non comunica e non dialoga con l’altro da sé, è condannato a vagare tra il lasciarsi vivere e il lasciarsi morire, incapace, tuttavia, quando ci prova, anche di suicidarsi, come accade a Estragone e Vladimiro – Gogo e Didi – in Aspettando Godot [S. Beckett, Aspettando Godot, Giulio Einaudi Editore, 1961]:
ESTRAGONE (guardando l’albero) Che cos’è?
VLADIMIRO E’ l’albero.
ESTRAGONE Volevo dire di che genere?
VLADIMIRO Non lo so. Un salice.
ESTRAGONE Andiamo a vedere. (Trascina Vladimiro verso l’albero. Lo guardano immobili. Silenzio). E se c’impiccassimo?
VLADIMIRO Con cosa?
ESTRAGONE Non ce l’hai un pezzo di corda?
VLADIMIRO No.
ESTRAGONE Allora non si può.
VLADIMIRO Andiamocene.
ESTRAGONE Aspetta, c’è la mia cintola.
VLADIMIRO E’ troppo corta.
ESTRAGONE Mi tirerai per le gambe.
VLADIMIRO E chi tirerà le mie?
ESTRAGONE È vero.
VLADIMIRO Fa’ vedere lo stesso. (Estragone si slaccia la corda che gli regge i pantaloni. Questi, che sono larghissimi, gli si afflosciano sulle caviglie. Tutti e due guardano la corda). In teoria dovrebbe bastare. Ma sarà solida?
ESTRAGONE Adesso vediamo. Tieni.
Ciascuno dei due prende un capo della corda e tira. La corda si rompe facendoli quasi cadere.
L’albero, spoglio, storto, inutilizzato per il suicidio non riuscito di Estragone e Vladimiro diventerà il simbolo della “poetica del levare” che accomuna il drammaturgo Samuel Beckett e lo scultore Alberto Giacometti. I due si conobbero a Parigi, dove avevano dimora, pur essendo Giacometti di origine svizzera, della Val Bregaglia, e Beckett, irlandese.
Come ricorda il critico d’arte Luigi Marsiglia [Avvenire, 10 gennaio 2016], Beckett fece leggere a Giacometti il copione di Aspettando Godot, chiedendogli una consulenza su come organizzare lo spazio scenico. Nel racconto di Marsiglia si legge che: “Lo scultore sussurrò: «Toglierei quel ramo. È di troppo. Che ne pensi? ». Lo scrittore assentì: «Era ciò che ti volevo suggerire, di togliere quel ramo». Ma Giacometti si rimise a sedere: «Dobbiamo stare attenti. Non farmi fretta, ci devo pensare». Infine si rialzò, salì sul palco e cominciò a togliere tutti i rami, uno dopo l’altro, con Beckett che annuiva ad ogni passaggio. Conclusa l’operazione, restò soltanto il tronco dell’albero, spoglio e carico di ombre scure. Come una scultura filiforme di Giacometti.
Come Beckett nella scrittura e nella drammaturgia, anche Giacometti nel suo campo artistico della pittura e soprattutto della scultura appartiene alla “poetica del levare”: creativi “per sottrazione”, con l’obiettivo di denudare la condizione degli umani, per mostrarne la fragilità, l’instabilità: un approccio che finisce per informare l’arte stessa che come la ricerca del senso dell’esistenza non è mai compiuta, ma comincia ogni volta daccapo: si può riuscire solo se si fallisce.
Per Giacometti , lungi da finalità estetiche, l’arte è “la scuola dello sguardo”. Lo ricorda in uno splendido saggio dal titolo “Giacometti senza fine”, il critico d’arte Franco Monteforte, che riprende un passaggio del dialogo tra lo scrittore Andrè Parinaud e lo stesso Giacometti, nel quale lo scultore svizzero afferma : “Un tempo andavo al Louvre e i quadri o le sculture mi davano un’impressione sublime…Oggi se vado al Louvre guardo la gente che guarda le opere…Il sublime oggi per me è nei volti più che nelle opere”. [https://www.notedipastoralegiovanile.it/images/ZIBALDONE/Giacometti.pdf].
Beckett e Giacometti hanno preso sul serio, pur utilizzando codici di comunicazione diversi da Camus, l’assurdo che è nel mondo, che, come direbbe Danilo Dolci, è aperto a ogni sviluppo. A patto che non si operi alcuna de-frammentazione culturale dei modi di stare al mondo e non si riconduca il linguaggio del senso alla metafisica: religiosa, ideologica, filosofica, tecnologica: “Dovremo convincerci che ciò che vediamo è la cosa più importante”, afferma Giacometti.
Oltre al volume di Matti Megged, “Dialogo nel vuoto. Beckett e Giacometti”, edito da Hestia nel 1993, alla pièce teatrale “Attraversamenti” che rappresenta le sculture di Giacometti con i testi di Beckett, allestita nel 2015 dal regista Maurizio Lupinelli, e alla Mostra organizzata nel 2020 dall’Institut Giacometti dal titolo “Giacometti/Beckett Fail again. Fail better”, recentemente lo scrittore Massimo Pedroni ha dato alle stampe una drammaturgia dal titolo L’albero, opera che come lui stesso afferma nel presentarla intende percorrere l’immaginario dell’incontro artistico e umano tra Beckett e Giacometti [M. Pedroni, L’albero, Incontro Samuel Beckett – Alberto Giacometti, CartaCanta, 2022].
Il testo, secondo il racconto dello stesso autore, gli è stato ispirato da una foto in bianco e nero del fotografo Robert Doinsneau che ritrae i due artisti con lo sguardo rivolto verso l’alto, e che “nel rispettivo operare, avevano l’animo ‘butterato’, da analoghe inquietudini. La disperante, incomprensibile condizione dell’uomo e la sua solitudine dai connotati metafisici”.
“La cosa forse che percepivo e che mi catturava – chiosa Pedroni nell’introdurre il testo – era questo loro guardare ‘oltre’. In effetti il loro lavoro, aveva come oggetto e, si sviluppava, al di là dei temi dettati dalle piccole contingenze. Cercando risposte sulle inquietudini strutturali dell’essere umano”[M. Pedroni, L’albero, op. cit.].
Nel bel testo di Pedroni, che ricostruisce frammenti della vita e delle opere di Beckett e Giacometti, vi è un passaggio saliente del dialogo immaginario tra i due che ci restituisce l’essenza della loro umanità e insieme della loro arte, feconde perché destinate al fallimento, quando Al (Giacometti) risponde a Sam (Beckett): “Talvolta a fine giornata, guardando il lavoro fatto sono anche felice dei risultati raggiunti….Solo per qualche istante. Necessario che sia così, non potrebbe essere altrimenti. Senza quel magone di insoddisfazione, di senso di imperfezione di incompletezza si incepperebbe tutto. Il futuro, il domani. Non saprei più cosa fare. Gente come noi non può che vivere nell’insoddisfazione”.
Fallire di nuovo. Fallire meglio.