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Se è la maschera a cambiare noi

Autore

Gianpaolo Carbonetto
Gianpaolo Carbonetto è giornalista e responsabile di programmi culturali e di formazione, studioso dei fenomeni più rilevanti della cultura e della democrazia.

Ogni volta che ascolti qualcuno, ti chiedi quanto di come si mostra e di quello che gli senti dire corrisponda al vero e quanto, invece, derivi da sovrastrutture mentali o semantiche che esistono perché chi sta parlando vuole rendere più appetibili fatti e persone. Anche e soprattutto sé stesso. È una tipica “realtà specchio” in quanto lo stesso dubbio viene anche agli altri quando a parlare sei tu.

Potremmo cavarcela con la solita frase «Tutti portiamo una maschera», ma sarebbe una risposta non soltanto parziale, ma gravemente lacunosa, anche perché è la stessa parola “maschera” a camuffare sé stessa. Quasi sempre, infatti, noi non ci mascheriamo, ma ci travestiamo, visto che la maschera si usa soprattutto per non farsi riconoscere, il travestimento per sembrare qualcun altro.

In realtà è il celare almeno in parte il proprio volto l’unica caratteristica comune di tutte le cose che noi definiamo “maschera”: non soltanto quelle di carnevale, ma anche quelle antigas, o da sub, o quelle usate in certi sport per difendersi da impatti violenti, o, ancora, le mascherine sanitarie. Se, invece, lasciando perdere l’eventualità di un intento deliberatamente truffaldino, cerchiamo di farci vedere migliori di quello che siamo, non facciamo proprio nulla per nascondere la nostra identità, ma anzi mettiamo in bella mostra anche il nome, oltre che i connotati, mentre tentiamo di camuffare alcune realtà di quelle che non si vedono a prima vista e che pensiamo sia meglio non mettere in evidenza. 

L’Ariosto nell’Orlando Furioso auspicava: «Se come il viso si mostrasse il core». Ma si trattava di un auspicio sentimentale, mentre oggi ci si rende conto che dietro a maschere e travestimenti diventano sempre più importanti dei rovelli etici legati al cosa si può provocare camuffando sé stessi, e, forse a sorpresa, ci si rende conto che istintivamente si guarda con più indulgenza al travestimento, sempre se non deliberatamente truffaldino, che alla maschera.

La maschera che ci nasconde il volto la associamo, infatti, a rapine, rapimenti, terrorismo e l’anonimato ci porta alla mente minacce, ricatti, delazioni. Il fingere di essere un po’ diversi, invece, pur non essendo mai un atto commendevole, a meno che non lo si faccia per risparmiare sofferenze a qualcuno, è guardato con una certa indulgenza perché tutti sappiamo di non essere il massimo e, quindi, non colpevolizziamo troppo gli altri per qualcosa che, in definitiva, è capitato di fare anche a noi.

A stravolgere la situazione, però, è stato l’arrivo di Internet che ha allargato a dismisura la possibilità di diventare non identificabile, o di assumere sembianze altrui. Inizialmente tutto questo ha mantenuto intatta quell’aura di pretesa innocenza che accompagnava gli autotravestimenti anche perché Internet regalava la convinzione di muoversi in un mondo virtuale, in una specie di sogno e, come scrive Platone nel V libro della Repubblica, «Nessuno applica la morale nei sogni», in quanto in un mondo virtuale nulla di quello che facciamo ha conseguenze. Così molti hanno continuano a sottovalutare i propri atti pur seminando odio e magari causando dolori, disperazioni, suicidi.

Internet, poi, può regalare una sensazione di impunità e, quindi, diventa una formidabile sfida etica per i suoi frequentatori e uno straordinario terreno d’osservazione delle nostre dinamiche quotidiane. Il dilemma è presto detto: la rete ci trasforma in quello che non siamo, o rivela ciò che siamo veramente perché chiama in causa il concetto di responsabilità?

Rousseau proponeva un dilemma: se dall’altra parte del mondo ci fosse una persona cattivissima e ricchissima e tu potessi farlo morire, ottenere tutte le sue ricchezze ed essere assolutamente certo che mai nessuno penserà a te come colpevole, lo uccideresti? Cioè, rispettiamo le leggi perché temiamo la punizione in caso di trasgressione, oppure perché è la nostra coscienza a imporre di comportarci così? Lo spazio per i giudizi morali c’è se solo se c’è possibilità di scelta. Ed è quando siamo gli unici giudici delle nostre azioni che cade la maschera e ci rendiamo conto che il nostro comportamento acquista valore se abbiamo di noi stessi una considerazione abbastanza alta da voler continuare a essere moralmente accettabili. Nel Riccardo III di Shakespeare, il protagonista continua a uccidere e a compiere crimini senza provare alcun rimorso fino a che, a un certo punto, dice: «Mi rendo conto di essere diventato nemico a me stesso, perché adesso quando rimango solo in una stanza, so di essere solo con un assassino».

E tutto questo vale non soltanto davanti a crimini estremi, ma anche nelle apparentemente piccole scelte quotidiane. Pensate a quei politici che promettono sapendo bene di mentire già in partenza; pensate a come possono influire sulle vite altrui, a come possono causare veri e propri disastri. Ma pensate anche a chi culla la propria credulità, pur davanti a dietrofront continui, rinunciando aprioristicamente a ogni ragionamento che porti a un possibile smascheramento.

Un ultimo appunto. Come scriveva Pirandello, ogni uomo indossa una maschera, che in parte ha scelto e in parte si è visto incollare addosso dalla società, come nel teatro greco in cui gli angoli della bocca piegati all’ingiù obbligavano l’attore a recitare in una tragedia, mentre all’insù lo portavano alla commedia. E anche questo è molto importante in quanto se non siamo soltanto noi a decidere la maschera, alla lunga è la maschera stessa a influire su chi la porta tanto da cambiarlo, tanto da entrare sotto la pelle e da obbligare a mantenerla viva perché ormai non si sa più come tornare indietro.

Forse per riuscire a dare un’immagine un po’ più definita del rapporto esistente tra noi e la nostra maschera può venirci in aiuto il mondo dei fumetti, specificatamente quello dei supereroi che custodiscono gelosamente la loro identità segreta e che, quindi, fanno abbondantemente uso di maschere, ma in modo del tutto diverso. Se ci pensate, infatti, Clark Kent diventa Superman togliendosi la maschera che usa nella vita di ogni giorno. Bruce Wayne, invece, diventa Batman coprendo con una maschera la faccia che mostra quotidianamente. La maschera, insomma, può togliere o dare poteri, ma dipende da noi se e come applicarla perché arriviamo alla conclusione che, maschera o non maschera, travestimento o non travestimento, siamo sempre noi a dover decidere come comportarci in maniera eticamente accettabile.

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