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Persona e maschera

Autore

Riccardo Libardi
Trentino, classe 1994, si è laureato triennale presso l’Università degli Studi di Padova con una tesi in Filosofia antica. Spostatosi all’Ateneo di Trento, ha completato a marzo 2020 la laurea magistrale in Filosofia e linguaggi della modernità presentando il lavoro "«Nulla al ver detraendo». Nichilismo, poesia e morale in Leopardi". Attualmente si occupa di accoglienza in una cantina vitivinicola, da sempre attivo nella rete di volontariato sociale del suo paese.

Nel periodo di carnevale è consuetudine «andare in maschera», partecipare a delle feste in cui è usanza indossare un travestimento. Un’usanza che ci porta fuori dalla nostra quotidianità dandoci l’occasione di «essere qualcun altro», di camuffare le nostre sembianze e di dissimulare la nostra identità. Ma è anche vero che nello scegliere la maschera che indosseremo spesso intendiamo anche  esprimere qualcosa di noi stessi che normalmente è «mascherato» dalla versione più «ordinaria» del nostro sé.

Sotto un certo punto di vista, questo mascherarsi carnevalesco non è che un caso-limite, un modo particolarmente eclatante del mascheramento in cui ci troviamo ogni giorno, nello scegliere non solo il nostro vestito, ma anche il nostro comportamento e le parole che adoperiamo in funzione del contesto in cui ci troviamo: il luogo di lavoro, un ritrovo tra amici, un’attività sportiva, un esame universitario e via dicendo. Tutti questi modi non vengono tuttavia intesi normalmente come un «mascheramento», bensì semplicemente come espressioni alternative ma pur sempre autentiche della nostra identità, della nostra «persona», che modula la propria espressione di sé a seconda delle circostanze.

Persona e maschera: due termini che a prima vista ci sembrano l’uno l’esatto l’opposto dell’altro. Quando diciamo di qualcuno «è una bella persona» cerchiamo con questa parola di abbracciare la sua identità nella sua interezza e nella sua autenticità. Quando usiamo il termine «persona» tiriamo in ballo la dignità dell’uomo, il suo essere individuo unico e irripetibile nella composizione del proprio mondo interiore e nell’insieme delle relazioni che lo situano nel mondo «esteriore». È tra i termini preferiti per parlare in maniera autentica, «verace» di quel particolare ente che io stesso sempre sono.

Potremmo restare quindi sorpresi nel cercare persona su un qualsiasi vocabolario di latino e accorgerci che la prima traduzione che ci viene proposta è proprio quella di «maschera». Significato che ci appare diametralmente opposto: la maschera è quel mezzo che per eccellenza permette all’individuo di celare le proprie sembianze, di dissimulare la propria identità e di negarsi al riconoscimento, ostacolando la manifestazione della verità a proposito di sé e proponendo una verità alternativa, ossia un «falso».

La maschera denotata dal latino persona era innanzitutto quella indossata dagli attori nell’im-personare i soggetti delle rappresentazioni teatrali. In questa maniera, gli attori celavano al pubblico le proprie fattezze individuali, mostrandosi invece con il volto dei personaggi cui prestavano il corpo e la voce. Se persona, da maschera che ne copriva il volto, ha assunto per noi oggi il significato di individuo autenticamente considerato, destino opposto fu riservato al «vero» individuo che si celava sotto di essa, all’attore: il greco hypokritēs diventa il nostro «ipocrita», il dissimulatore e il menzognero. In una parola: il «falso».

Questa «inversione semantica» in cui il vero e falso si scambiano di posto ci restituisce in qualche modo la consapevolezza si potrebbe dire pirandelliana che ciascuno di noi vive innanzitutto e perlopiù in una condizione di mascheramento, giocando di volta in volta un personaggio diverso nel calcare il palcoscenico della vita, modulando la manifestazione del proprio sé in funzione dell’ambiente in cui si trova situato e delle altre «persone» con cui sta interagendo. Ma davvero tutto questo significa falsità? Ciascuna di queste manifestazioni del proprio sé non è forse, proprio in quanto manifestazione, portatrice di verità?

La maschera del teatro antico non si limitava però semplicemente a una funzione di velamento. Oltre a coprire il volto dell’attore, essa aveva anche una funzione amplificatrice che portava a una manifestazione più chiara ed eminente della phonē, della voce dell’attore stesso.

Essere persona in questo senso si potrebbe quindi intendere come un portare a manifestazione compiuta ed eminente, selezionando e sezionando, una parte del nostro «io», mentre con la maschera viene coperto (non solo celato, ma anche custodito e protetto) un «resto». Ciò che di noi lasciamo di volta in volta emergere, emerge sempre a partire da quel «resto» che resiste perlopiù a una manifestazione completa, ma che rimane comunque sempre suggerito come un qualcos’altro, un «oltre». 

Riprendendo il caso della festa di carnevale, il bello del gioco del travestimento sta proprio nel fatto che, se da un lato tendiamo a renderci irriconoscibili, dall’altro attraverso la maschera vogliamo fornire degli indizi che conducano al nostro riconoscimento. Anche nel caso del teatro, sono innumerevoli le opere, tanto tragiche quanto comiche, dall’epoca classica fino ai nostri giorni, il cui motore è costituito dalla dinamica equivoco-riconoscimento, dove appunto questo riconoscimento finale (l’«agnizione») costituisce il punto verso cui tutto il dramma converge. Ma questo motore non funzionerebbe se mancasse l’equivoco iniziale. Così è proprio la condizione di mascheramento in cui sempre ci troviamo quella che ci offre, oltre alla possibilità di «ritagliare» la parte di noi che vogliamo di volta in volta manifestare in maniera eminente, anche la possibilità più autentica del caso-limite, del completo s-mascheramento in cui siamo capaci di aprirci in maniera totale e profonda alla manifestazione più intima della nostra verità. È quello che succede a ciascuno di noi, sia quando riusciamo ad essere completamente trasparenti a noi stessi (risolvendo in qualche modo la magna quaestio che già Agostino aveva riscontrato per sé a proposito di se stesso), sia quando ci troviamo nella rara condizione di svelarci completamente in una dinamica relazionale particolarmente profonda e autentica.

Il caso della verità a proposito di noi stessi che di volta in volta scegliamo di mascherare e smascherare agli altri si può considerare un caso particolarmente caratterizzato della dinamica di velamento-svelamento che si nasconde nel concetto greco di verità che si esprime nella parola alētheia. Il fatto che la verità non sia data in maniera immediata e perspicua ma che si annunci di volta in volta rimandando ad un «resto» che ancora deve essere svelato, e che nel ri-velarsi sarà nuovamente velato, è quello che mette in moto la nostra ricerca. La curiosità dell’esploratore che vuole vedere cosa ci sia al di là dell’orizzonte o nel buio di una grotta, la passione che muove il lavoro che porta alle scoperte scientifiche, e ancora la nostra cura e il nostro piacere nel conoscere sempre meglio chi ci sta accanto: tutto questo trova il suo motore nel velamento iniziale che, come un indizio, ci chiama a prendere parte allo svelamento. In questo modo ci è data la possibilità di «fare» la verità, di relazionarci ad essa in maniera partecipante.

Ovviamente in tutto questo rimane la natura ambigua della maschera: se non ci si accorge del suo essere maschera, del suo indicare quell’«oltre» che nasconde e custodisce, ma ci si ferma alla superficie nell’opinione che lì si sia già esaurito tutto quello che c’era da dire, si rimane nella falsità dell’equivoco. Cadere in questo equivoco apre al rischio che la maschera si chiuda completamente, occultando non solo quegli indizi che conducono al riconoscimento, ma ostruendo addirittura quell’apertura attraverso cui si manifestava quella parte selezionata della verità che sta sotto. Da maschera attraverso cui si intravede, essa si fa schermo completamente opaco, che nasconde senza svelare, che manifesta qualcosa che non ha niente a che vedere con chi quella maschera la indossa: ecco l’«ipocrita» che, consapevolmente o meno, resta completamente celato dietro la sua maschera. 

Restando all’erta di fronte a questo rischio, diciamo in conclusione benvenute alle maschere di carnevale, che nel contesto della festa e dello scherzo ci danno modo di riflettere sulle maschere di ogni giorno, e benvenute anche a queste ultime che ci permettono di esprimere della nostra persona il lato che di volta in volta è opportuno, custodendo nel velamento il «resto». Soprattutto, benvenute alle maschere che velando permettono la possibilità dello svelamento più totale e autentico, il quale, proprio per il suo carattere non comune, può assumere per noi il valore eccezionale di un «evento».

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