Sono un oggetto e mi trovo nel posto sbagliato. Quale oggetto sono? Non è così importante, cambio in base alle epoche. Oggi, potrei essere una boccetta di smalto, una pelliccia o un paio di scarpe col tacco. Potrei, specularmente, essere un paio di pantaloni larghi, una cravatta, una camicia. Se invece fossimo alla fine dell’Ottocento, potrei essere un corpetto, un paio di orecchini, un ombrellino col pizzo. Oppure, al contrario, un cappello a tesa larga, una fascia che stringe il seno o, forse ancora peggio, un paio di pantaloni o una bicicletta. Potrei anche essere un taglio di capelli troppo corto o un’acconciatura coloratissima. Evidentemente, non importa davvero chi sono, ma che faccia parte di una maschera, o meglio di un travestimento. Che, seppure inerme e inanimato, io abbia la forza di accompagnare chi mi indossa ad attraversare un confine spesso ritenuto netto e invalicabile. Sono una minaccia, e in Italia pare che sia da dopo l’Unità, a metà dell’Ottocento, che faccio davvero paura. È da quando, ad esempio, Soccorsa C. mi portava per le vie della Napoli di inizio Novecento e piano piano si radunava una folla di ragazze attorno a lui – perché sì, Soccorsa, nata “lei”, non transigeva sull’auto-nominarsi come se fosse un “lui” e io, complice dell’inganno, non posso che assecondarlo. Le donne si incuriosivano verso quel ragazzo dai lineamenti così gentili, dalle curve più accentuate del “normale”, dall’umore, in fondo, variabile e volubile come quello di una ragazza. Un quadro decisamente sospetto, che faceva sentire gli estranei legittimati ad avvicinarsi, scrutare, fare domande. Un pomeriggio eravamo al cinematografo e il clamore attorno a lui è stato tale che lo spettacolo si è dovuto interrompere. Ma non è stato quasi nulla in confronto alla volta in cui abbiamo fatto l’errore di arrivare alle Poste in bicicletta. Eravamo a Roma, ci eravamo spostati dopo l’episodio del cinematografo di Napoli. Io non lo sapevo, ma la fila dell’ufficio postale era uno dei luoghi di osservazione preferiti dai funzionari di pubblica sicurezza. Com’è che dicevano?
«[…] affluiscono migliaia di persone ogni giorno a ricercare lettere ferme in posta: sono signore, signorine, giovanette, donnine galanti, uomini di affari, giovani alla caccia di avventure: tra costoro si intrufolano truffatori, ricattatori, ladri, borsaiuoli, gente in lotta continua o momentanea colla società e col codice penale. Nella massima parte nascondono il loro nome sotto uno pseudonimo o sotto iniziali, o numeri di ricevute di annunci, o di biglietti di Banca, o di biglietti di tram. È un via-vai interessantissimo per gli osservatori: per gli studiosi della psiche umana: ci stupisce che ancora non sia stato cinematografato questo passaggio movimentato, multiforme, ove si confondono età, sesso, nazionalità, condizioni sociali e morali»
In mezzo a questa sfilata a tratti carnevalesca, Soccorsa, che non voleva farsi notare, veniva invece spiato da un funzionario che aveva fiutato che c’era qualcosa che non quadrava in lui. Siamo stati pedinati finché un agente in borghese non ci ha portati in Questura. Una donna ha esaminato Soccorsa a fondo, partendo dai suoi abiti fino ad arrivare ai punti più intimi che ci siano in un corpo, per poter capire una volta per tutte se fosse una femmina, come si sospettava. Forse sono stati proprio i sospetti a ridurre lo sgomento degli agenti nel constatare che, in effetti, Soccorsa non era biologicamente un ragazzo. Non era nemmeno così strano comprendere i motivi che l’avevano spinto a vivere sotto mentite spoglie, e fu lui stesso a dichiararlo in quell’occasione. Innanzitutto, gli abiti da uomo gli piacevano di più. Poi, per gli uomini era molto più facile trovare un lavoro, e alcune professioni non potevano essere svolte da una donna. Me lo ricordo ancora: Soccorsa voleva fare lo chauffer, ed era in quei panni che girava prima che lo scoprissero. Per farlo, non poteva che farsi uomo, in qualche modo. Ma soprattutto, c’era un’altra motivazione: Soccorsa aveva due fratelli, e uno di questi aveva provato a molestarlo. Se fosse riuscito a diventare maschio, ne era certo, non gli sarebbe mai più accaduto. Dopo essere stato interrogato, Soccorsa è stato arrestato. Ci hanno separati e non ho più saputo nulla di lui. So per certo però che cose simili sono successe a tante altre persone in quel periodo, anche a uomini che si vestivano da donne. Anzi, forse quelli erano visti ancora peggio, e sapete perché? Perché è molto comprensibile che una donna voglia farsi uomo in un mondo in cui per gli uomini molte strade sono più facili da percorrere – e non si parla solo di strade in senso metaforico, ma anche in senso reale: provate, da donne, ad attraversare certe vie delle città di sera con la stessa tranquillità con cui le può attraversare un uomo. Una donna che si fa uomo fa paura, rompe uno schema sociale e crea scompiglio, ma resta dentro l’ordine della comprensibilità. Un uomo che invece si fa donna non è spiegabile. Quali vantaggi pratici ne può trarre? Nessuno. Lo fa per assecondare una propria inclinazione, diventando una prova vivente e pericolosa del fatto che un certo modello di uomo è minabile. Questo, fa davvero paura. Ed ecco che, per mantenere in piedi l’ordine delle cose, le persone che attraversano quel confine vengono bollate: malate, deviate. Criminali, a volte, anche se io, l’oggetto che portano come maschera di passaggio, non sono una pistola. Evidentemente, non è mai importato che cosa io fossi davvero. Importava solo che mi trovassi nell’armadio sbagliato.
NOTE
La storia di Soccorsa C. e le riflessioni contenute in questo pezzo sono scaturite dalla lettura del volume di Laura Schettini, Il gioco delle parti. Travestimenti e paure sociali tra Otto e Novecento, Milano, Le Monnier, 2011.
La citazione, contenuta a pag. 33 del volume di Schettini, proviene da un articolo del 6 aprile 1912 dal «Messaggero», intitolato La napolitanella quindicenne vestita da chauffeur arrestata in piazza San Silvestro.