Professoressa Barbara Stiegler, lei insegna filosofia politica all’Università Bordeaux-Montaigne. Dopo il pamplhet dal titolo “La democrazia in pandemia”, pubblicato un paio di anni fa sempre per i tipi di Carbonio Editore, ha dato alle stampe il volume “Bisogna adattarsi”, che riflette criticamente sul modello economico-politico dominante e sulle sue conseguenze sulla vita delle persone e delle comunità. Su cosa verte più precisamente il testo?
Questo libro intende rivelare che, dietro al costante biasimo del nostro presunto ritardo e al permanente richiamo verso un nostro riadattamento, esiste qualcos’altro: una riflessione politica e insieme potente e strutturata, capace di proporre un resoconto molto articolato in merito al ritardo della specie umana e al suo futuro, ed essa stessa dipendente da una determinata concezione del senso della vita e dell’evoluzione. Questo pensiero politico dominante è quello che si è autodefinito, a partire da un famoso convegno tenutosi a Parigi nell’agosto del 1938 intorno all’opera di Walter Lippmann, con il nome di “neoliberalismo”.
Esiste, per dirla in altre parole, una forma di schiavitù moderna che lei chiama “adattabilità”. Un pensiero che parte dal mercato come regolatore sociale ma che diventa nel tempo una sorta di antropologia. Un trend che vede un’accelerazione del flusso grazie al processo di automazione, che, come lei dice, interrompe la logica adattiva lenta e graduale descritta da Darwin. Il suo libro sembra un manifesto contro la resilienza…
Con la rivoluzione industriale, il meraviglioso meccanismo di adattamento tra i viventi e il loro habitat ha lasciato il posto a un conflitto tra la specie umana e il suo ambiente, apparentemente senza via d’uscita. Invece di essere, come auspicato da Aristotele nella Politica, quell’animale politico perfettamente adatto e all’altezza della sua polis, l’individuo cittadino della Grande Società si ritrova del tutto sopraffatto dal suo nuovo ambiente circostante, al punto da non riuscire più non solo a conoscere o comprendere, ma nemmeno soltanto a percepire.
Lei individua la genesi di questa prospettiva in particolare nell’elaborazione di Walter Lippmann: un neoliberalismo che vede la democrazia come l’abbiamo conosciuta un sistema frenante rispetto al ritmo vertiginoso da seguire per adattarsi al cambiamento imposto dalla Grande Società, e perciò da cambiare. Lippmann, con il suo approccio paternalistico, ritiene necessario in proposito un “governo degli esperti”. Sembra l’anticipazione della stagione dei governi dei tecnici e della tecnocrazia dei nostri giorni.
A partire dall’analisi di una crisi della democrazia nelle società industriali, Lippmann intende dunque proporre un modello politico completamente nuovo, una nuova forma di democrazia articolata secondo tre linee differenti, tutte in rottura con il modello democratico dominante.
Laddove le società liberali hanno la pretesa di preservare la sfera privata (il foro interno delle coscienze, la libertà di pensiero, la vita affettiva e intima delle persone, ma anche il libero corso dei loro affari sul mercato) dagli interventi eccessivi del governo, la neodemocrazia elettiva e assai poco liberale promossa da Lippmann nel 1922 ripone l’adattamento della specie umana nelle mani degli esperti delle scienze umane e sociali e delle loro tecniche di propaganda, incaricate di modulare nella giusta direzione i modi di agire, di pensare e di sentire nell’individuo comune.
Quali sono le tre vie che Lippmann propone?
Un governo di esperti, che rompe l’assunto di una onni-competenza da parte dei cittadini. Una manifattura del consenso, che prevede la fabbricazione di buoni stereotipi, attraverso una propaganda ben orientata, intesa a riadattare la specie umana al suo nuovo ambiente globalizzato. Infine, una democrazia in versione minimal, e puramente procedurale, che l’ambizione di avere la meglio sull’eterocronia tra ritmi evolutivi, e di risolvere ogni forma di conflitto attraverso una riforma graduale delle regole, mimando il ritmo omogeneo delle piccole variazioni darwiniane e della loro selezione naturale.
Questo pensiero ha influenzato le èlite anche di altri paesi, ma ha dato luogo anche a un forte dibattito, da lei ricostruito nel libro, in particolare con il filosofo John Dewey che prospettava tutt’altro approccio al tema.
Pensare al ritardo della specie umana non solo come un difetto ma anche come un’opportunità per la sua evoluzione, implica innanzitutto respingere, sia contro Lippmann che contro lo stesso Darwin, la visione gradualista del ritmo evolutivo. In questo contesto, Dewey promuove ciò che chiamo le eterocronie del tempo evolutivo, che propongo di interpretare in un senso molto più ampio di quello limitato dato dalla biologia dello sviluppo.
Dewey sostiene un’alternativa radicale: quali sono gli ingredienti del suo modello di democrazia e di organizzazione sociale?
Al governo degli esperti , in primo luogo, obbietterà che la democrazia comporta il sistematico utilizzo della “inchiesta”, reinterpretata come la condivisione pubblica delle conoscenze e la loro messa alla prova collettiva. Alla fabbrica dei simboli da parte della propaganda, in secondo luogo, ribatterà che il pubblico deve essere in grado di riappropriarsi dei mezzi di “comunicazione” interni, al fine di formulare il tessuto vivente, non solo del sociale, ma anche della “comunità”. Alla concezione minimalista, procedurale e a intermittenza della consultazione democratica, da ultimo, risponderà che la democrazia deve, invece, estendersi a tutte le dimensioni della vita umana, e che deve esplicitamente affrontare la questione dei valori, dei fini e degli scopi comuni della collettività politica.
La categoria di “eterocronie del ritmo evolutivo” da lei adottata è una radicale critica al pensiero unico e all’omologazione culturale e politica prodotta dal capitalismo globalizzato e che Lippmann e la corrente di pensiero neoliberale che egli rappresenta, considera, come lei ricorda, un “fine trascendente del processo evolutivo”. Dewey invece cosa pensa in merito?
Lungi dal considerare la globalizzazione e i suoi ritmi accelerati come il telos che ci ordina di distruggere definitivamente ogni forma di comunità locale e stabile, la vera difficoltà consiste, invece, in The Pubblic and Its Problems, nell’articolare le due scale, globale e locale, dei problemi collettivi. Una tale ri-articolazione prolunga le eterocronie del ritmo evolutivo e continua l’evoluzione differenziata della vita e degli esseri viventi, il cui senso e scopo nessuno può prevedere.
Dewey denuncia l’avanzare di un individualismo atomizzato e di un’alleanza paradossale tra atomismo e collettivismo che conduce a processi di dis-individuazione e fa il gioco di un capitalismo che vuole una massa “molle, docile e passiva”…..Interessante in questa ottica è anche l’accenno che lei fa alla riduzione economicistica del senso del lavoro.
Riducendo il lavoro a una pura “fatica” (labor), il suo significato è ridotto al mero profitto individuale, che l’individuo calcola per se stesso. Invece di inserirsi in un processo dinamico in cui fini e mezzi si costituiscono reciprocamente, in interazioni collettive continue, il lavoro diviso dalla “divisione del lavoro” diventa un semplice mezzo (con un costo o che causa una “pena”) analiticamente separato dal suo fine (avendo di mira un beneficio, o puntando al “profitto” e a si suoi “piaceri”). Riproponendo la grande divisione dualista tra fine e mezzo, la concezione liberale del lavoro riduce l’individuo a una somma di atomi di fatica e piacere, o di costi e benefici. Essendo ormai il lavoro scollegato dall’obiettivo collettivo del suo significato, e deflazionato a livello di “labor” subordinato alla sopravvivenza o, nel migliore dei casi, al profitto, ci si chiede quale istanza possa regolare queste interazioni iper-individualiste.
Il libro è molto denso e richiede una lettura approfondita per cogliere la ricchezza e profondità delle sue argomentazioni. Nella parte finale lei parla di un’agenda neoliberale ispirata a una biopolitica disciplinare, ossia una sorta di dispotismo soft nel campo del lavoro, dell’educazione e della salute, capace di ottenere risultati attraverso la fabbricazione del consenso delle masse.
Se il nuovo liberalismo di Lippmann prolunga la biopolitica liberale nei suoi obiettivi di presa in carico della qualità della vita delle popolazioni e della sicurezza dei loro ambienti, esso pone anche al centro del suo programma la necessità di un costante disciplinamento dei comportamenti, che riprende letteralmente l’obiettivo delle discipline di mettere in riga la forza-lavoro, al servizio delle esigenze del capitalismo globalizzato. Dando seguito alle politiche di sanità pubblica con politiche educative e culturali che disciplinano la specie umana e la orientano nella giusta direzione, la biopolitica lippmanniana rafforza quindi il progetto disciplinare invece di contrapporvisi.
Nelle conclusioni del suo libro non manca una sottolineatura critica sui limiti dei partiti progressisti nel fronteggiare la prospettiva neoliberale: oggi – scrive – il conflitto politico si concentra principalmente sulla questione di “chi è in ritardo” e “chi è in anticipo”….
Questa riconfigurazione delle tradizionali polarizzazioni può spiegare perché, nelle pubbliche arene attuali, tutti i simboli politici sembrano costantemente scambiarsi e invertirsi, con una rapidità che disorienta anche le menti politicamente più preparate. Privati in un sol colpo delle energie della riforma e rivoluzione, i partiti cosiddetti progressisti si ritrovano ovunque piuttosto disarmati, spettatori attoniti di una preoccupante confusione simbolica che li condanna o all’adesione passiva alla “rivoluzione” neoliberale, o alla lotta di reazione contro le sue “riforme”, e per la difesa dello status quo. I vecchi conservatori si trasformano in progressisti mentre i vecchi progressisti vengono denunciati come conservatori. Il fatto che il neoliberalismo, attraverso la sua potente reinterpretazione della rivoluzione darwiniana e del significato dell’evoluzione della vita e degli esseri viventi, abbia monopolizzato la questione del ritardo e dell’avanzamento spiega in larga misura questo stato dell’arte delle cose.