Sembra strano parlare di schiavitù in riferimento alla società in cui viviamo, eppure occorre farlo. La liberal-democrazia che definisce l’attuale contesto socio-politico nei Paesi sviluppati si sta rivelando tutto fuorché un sistema liberante: al suo interno gli individui, sempre più piccoli e insignificanti, si trovano immersi in una mole sterminata di stimoli e di informazioni interconnesse, risultando tuttavia incapaci di costituirsi come soggetti autonomi, in grado di relazionarsi autenticamente gli uni con gli altri.
«L’epoca ipermoderna – osserva Massimo Recalcati, riferendosi all’attuale temperie – è l’epoca dell’individualismo atomizzato che s’impone sulla comunità, l’epoca del culto narcisistico dell’io e della spinta compulsiva al godimento immediato che stravolgono il circuito sublimatorio della pulsione, imponendosi nella forma di un inedito principio di prestazione che situa il godimento stesso come nuovo dovere collettivo»¹.
Subissati dalle distrazioni, investiti dalla futilità e coartati, loro malgrado, entro i limiti del puramente materiale, gli uomini occidentali postmoderni – come la società a cui appartengono – si stanno liquefacendo: eccoli vagare nel nulla di un tempo che scorre senza tendere ad alcunché, incapaci di provare autentiche emozioni e portati a confondere la loro libertà con la liberazione dei piaceri e degli istinti. Apparenza, bramosia di ricchezza e degenerazione culturale sono le coordinate entro cui essi paiono obbligati a muoversi, sottomessi ad un Weltgeist la cui cifra più tipica risiede soprattutto in questo: nell’aver abilmente mistificato – come nota Nietzsche – i concetti di alto e basso, di bene e male, di vero e falso (giacché, a loro volta, alto, basso, bene, male, vero e falso sono gabellati come mere interpretazioni il cui significato è sempre parziale²) e, con essi, le nozioni di schiavitù e di libertà.
Tra le innumerevoli forme di schiavitù di cui l’uomo comune oggi soffre ce n’è una particolare, ingenerata dal suo rapporto di subordinazione alla Rete e dalla sua tendenza a far dipendere le sue conoscenze dal Web, consultato con una leggerezza disinvolta seconda solo alla sua assoluta mancanza di senso critico. A gettar luce su questo problema è l’ultimo saggio del politologo Tom Nichols, dal titolo La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, pubblicato per la Luiss University Press.
«Accedere alla Rete – scrive Nichols, docente allo U.S. Naval War College e all’Harvard Extension School – può davvero rendere le persone più stupide di quanto non accadrebbe se non si accostassero mai a un determinato argomento. L’atto stesso di cercare informazioni induce la gente a pensare di aver imparato qualcosa, mentre in realtà è più probabile che si ritrovi immersa in una quantità ancora maggiore di dati che non capisce. Ciò accade perché dopo un certo tempo passato a navigare, le persone non sanno più distinguere tra le cose che forse sono loro balenate davanti agli occhi e le cose che sanno davvero. Vedere parole su uno schermo non è la stessa cosa che leggerle o capirle»³.
La cosa è confermata – neppure troppo indirettamente – da una ricerca effettuata da un team di analisti e psicologi dell’Università di Yale a cui Nichols si collega, secondo cui chi cerca informazioni sul Web emerge da questo processo con una percezione gonfiata di quello che sa, anche riguardo argomenti non connessi a quelli che ha cercato⁴. Il gruppo di studiosi statunitensi delinea con delicatezza questo problema così: come un confondere il sapere acquisito esternamente con la conoscenza interiore. In maniera più diretta e meno politicamente corretta, Nichols afferma che pensare d’essere intelligenti perché si è cercato qualcosa su internet è come ritenere di essere bravi nuotatori perché ci si è bagnati camminando sotto la pioggia⁵.
«Come ha osservato il giornalista Tom Jacobs – continua il politologo americano – l’atto di cercare qualcosa in Rete sembra innescare una convinzione del tutto ingiustificata della propria conoscenza, cosa che, a causa dell’abitudine sempre più diffusa di guardare online per rispondere praticamente a qualsiasi domanda, è piuttosto spaventosa. O, se non spaventosa, di certo irritante. Queste erronee affermazioni di sapere acquisito possono rendere quasi impossibile il lavoro di un esperto. Non c’è modo di illuminare persone convinte di aver ottenuto un sapere decennale perché hanno trascorso una mattinata su un motore di ricerca. Poche altre parole possono avvilire un esperto nel corso di una discussione con un profano come: Ho fatto qualche ricerca. Com’è possibile che l’esposizione a così tante informazioni non riesca quantomeno a elevare lo standard del sapere, se non altro attraverso l’osmosi elettronica? Come fa la gente a leggere tanto e a memorizzare così poco? La risposta è semplice: sono poche le persone che leggono davvero quello che trovano»⁶.
Tale tesi – icastica – è confermata da un altro studio della University College of London, secondo cui la gente non legge davvero gli articoli che trova durante una ricerca online: dà una rapida occhiata alla prima riga o alle prime frasi per poi passare oltre. Gli utenti della Rete – hanno osservato i ricercatori – non leggono; vari indicatori segnalano l’emergere di nuove forme di blanda decifrazione dei contenuti in cui gli utenti avanzano nella navigazione orizzontale attraverso titoli, pagine e abstract alla ricerca di risultati immediati. Sembra quasi – dice la ricerca – che essi vadano online per evitare di leggere nel senso tradizionale del termine⁷.
Ebbene, è facile comprendere come tale disabitudine alla lettura o, addirittura, tale incapacità di leggere – non solo in senso intensivo ma anche estensivo (ovvero coinvolgente l’integralità del rapporto tra la soggettività e ed il reale) – si riveli come una forma di schiavitù, dalla quale è necessario provare ad emancipare noi stessi e gli altri. Come fare? Quale ricetta seguire? Occorre senz’altro tornare – come suggerisce Emanuele Samek Lodovici in un suo intervento del marzo 1981, datato solo se considerato superficialmente – a educarci e lasciarci educare all’intelligere, all’intelligenza come intus-lectio, come forma di lettura profonda dell’esistente, ricordandoci che il suo esercizio è un dovere, non un’attività facoltativa; occorre tornare a coltivare una sana volontà di verità, non accontentandosi di quanto intercettato in qualche pagina internet o dei rimasugli eruttati dall’ultimo mediocre, rammentando che lo stupido è, politicamente parlando, il soggetto più pericoloso di tutti, più pericoloso del malvagio stesso dal momento che questi ogni tanto si riposa, mentre il primo è sempre in esercizio⁸.
¹ M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. XI.
² Cfr. C. Sini, Il silenzio e la parola. Luoghi e confini del sapere per un uomo planetario, Ipoc Press, Milano 2012, p. 145.
³ T. Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Luiss University Press, Roma 2017, p. 128.
⁴ M. Fisher et al., Searching for Explanations: How the Internet Inflates Estimates of Internal Knowledge, in Journal of Experimental Psychology, n. 144, a. 3, giugno 2015, pp. 674-687.
⁵ Cfr. T. Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, p. 128
⁶ Ibi, pp. 128-129.
⁷ Cfr. Ciber – University College of London, The Google Generation: The Information Behaviour of the Researcher of the future”, 11 gennaio 2008.
⁸ Cfr. E. Samek Lodovici, Una vita felice. Conversazioni con sette inediti, Ares, Milano 2023, p. 175.
Si’, solo “veritas liberabit vos” (Gesu’)