“Come una porta attraverso cui accedere ad un’interpretazione profonda del reale”

Autore

Paolo Fedrigotti
Paolo Fedrigotti (Rovereto, 1981) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Dante e la filosofia medioevale. Si è specializzato nell’insegnamento secondario presso la Ssis della Libera Università di Bolzano. Ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia presso lo Studio teologico accademico di Trento. Nella stessa città è docente di storia della filosofia e di filosofia della conoscenza ed epistemologia all’Istituto teologico affiliato e all’Istituto di scienze religiose, nonché di filosofia e storia nei licei di Riva del Garda. È membro della Scuola di Anagogia di Bologna e autore di numerosi articoli specialistici e monografie.

 PROLEGOMENI AD UNA METAFISICA DEL SILENZIO 

Che la società in cui viviamo fatichi a rapportarsi serenamente con l’esperienza del silenzio è evidente. Per l’uomo postmoderno il silenzio si configura come una zona oscura, un vuoto, una situazione portatrice d’angoscia che, come tale, va esorcizzata e riempita di voci e rumori: apparendo nel suo immaginario come un quid associabile alla solitudine, allo spaesamento, alla noia, alla malattia e al dolore, il silenzio gli si manifesta come una forma negativa di passività dalla quale occorre tenersi il più distante possibile. Tale percezione è evidentemente falsificata e falsificante: si tratta di una lettura delle cose che deriva dalla convinzione erronea che il silenzio sia il contrario della comunicazione

A ben vedere esso possiede un’impareggiabile forza comunicativa; nel momento in cui si diventa capaci di intenderne la fisionomia, il silenzio diventa una soglia d’accesso ad un livello di lettura profondo della nostra identità e del Mistero che, pur essendo altro da noi, ci costituisce nell’intimo. Oggi, per tanti, è quasi impossibile avvedersene. Perché questo accade? Forse la risposta a tale interrogativo va ricercata nella diffusa difficoltà a fermarsi sull’esperienza del silenzio raccogliendosi presso di sé e – insieme – nell’incapacità generalizzata di ascoltare e di misurarsi col silenzio per coglierne il segreto. 

Da un lato c’è la ritrosia dell’uomo contemporaneo a rallentare, dapprima, e ad arrestare, poi, il movimento frenetico che segna la sua vita, un’esistenza che, per restare viva, pare chiamata a correre e che, a causa di questa miope prospettiva, finisce per essere percepita come un movimento senza scopo, un correre per correre non finalizzato al raggiungimento di alcun orizzonte in cui riposare ma teso unicamente a perpetuare se stesso, fino alla consunzione.

«Se d’altra parte tutto scorre – scrive François Xavier Bellamy in un suo recente saggio – non c’è più un luogo che possa essere la meta del movimento, né uno stato stabile che possa costruire il termine del cambiamento. Non c’è più nel mondo un luogo naturale dove ciascuno possa dimorare con la sensazione di aver trovato il proprio posto e non si può nemmeno più immaginare un luogo simile in modo da orientarvi i propri sforzi. (…)  Senza un luogo da abitare gli individui diventano concorrenti nel senso letterale del termine: corrono insieme, incapaci di fermarsi, dentro uno spazio sociale tanto competitivo quanto vacuo e inconsistente»².

Ora, se non può darsi mai quiete è perlomeno improbabile che l’uomo possa – come dice Pascal – demeurer chez soi, che riesca cioè a stare presso di sè, richiamando i propri pensieri per isolarsi dai rumori del mondo ed aprirsi così all’insondabile grammatica della coscienza che si esprime unicamente e costantemente nel modo del silenzio⁴. 

Da un altro lato – si diceva – c’è l’inidoneità del soggetto postmoderno all’ascolto. Popoliamo una società appesantita da un’imperante chiusura autoreferenziale e gravata dalla celebrazione del monologo, in cui nessuno ascolta (né si mostra in grado di decentrarsi e di attivare quella modalità interiore richiesta per porsi in relazione con l’altro da sé⁵) e tutti (o quasi tutti) esigono che la loro parola e il loro ego siano unanimemente accettati. 

Ebbene, se in un certo senso si può dire che il silenzio sia la condizione di possibilità dell’ascolto⁶ – giacché, come ricorda Romano Guardini, solo dal silenzio può nascere l’ascolto autentico vero è pure, in un altro senso, che anche lo stesso silenzio ambisce a porsi come dimensione che chiede d’essere ascoltata. Assecondare tale ambizione non è per l’uomo un optional ma un imperativo categorico: solo così facendo egli può frequentare quel contesto in cui la coscienza può parlare con sé di se stessa e in cui può sentir parlare di sé e, parimenti, può volgersi all’Intero quasi a partire dal suo centro⁸.

Ascoltando il silenzio, il soggetto umano può anzitutto interfacciare tangibilmente il suo essere limitato, il suo essere temporalmente finito e, insieme, la sua propensione a non rassegnarsi alla morte e all’abulia esistenziale. Scrive Roberto Mancini a questo proposito:

«Quando accettiamo di tacere o ci troviamo senza parole, quando entriamo improvvisamente in una zona in cui voci, suoni e rumori sono attutiti sino a farsi da parte, allora ci rendiamo conto in un attimo della misura del nostro essere, di non essere il centro del mondo. Se è un forte dolore a portarci sin qui, il sentimento corrispondente più probabile è il senso di impotenza e di irrilevanza. In tutti gli altri casi della quotidianità direi che, in tale esperienza del limite, sentiamo con sollievo che la vita e le cose non dipendono da noi e che possiamo anche sospendere ogni impegno senza che nulla crolli. Così ci è dato il tempo. Sperimentiamo che non dobbiamo più inseguirlo, riempirlo, sfruttarlo, perché invece ci è donato semplicemente per essere, per ritrovarci. Il silenzio inizia allora a parlare la sua lingua e si traduce anzitutto come una nuova esperienza del tempo: l’incontro con il tempo stesso come durata piena di possibilità inedite, spazio inatteso per cambiare, riconoscere, imparare»⁹. 

Ascoltando il silenzio, la persona può, ancora, scoprire la verità del desiderio che la anima, chiave di lettura attraverso cui interpretare l’intera esistenza umana nel suo essere lacerata tra bellezza e dolore¹⁰, tra una Pienezza misteriosa, cioè, che la attrae irresistibilmente a sé e l’esperienza di un dolore che pare esserne la negazione più cocente¹¹. L’esperienza del silenzio è senz’altro rivelazione della natura del desiderio: per l’uomo – anche per l’uomo postmoderno, il cui spazio interiore è stato invaso da bisogni indotti che, più che al suo compimento, conducono alla sua dispersione – è la conditio sine qua non perché egli possa divenire consapevole della tensione tra ciò che è originalmente più suo e quanto è Ultimo. Osserva ancora Mancini nel merito:

«Ogni desiderio [silenzioso], profondo, costante, irriducibile in noi esprime e modula variamente quella ricerca metafisica che non si risolve nel riscoprire ciò che era dimenticato o nel volere il già posseduto perché, invece, si rivolge a una pienezza mai prima sperimentata, a una felicità definitiva. Questo desiderio è escatologico per sua natura, incapace com’è di accontentarsi, di spegnersi in qualche appagamento, neppure quello di una mitica regressione all’origine del nostro essere. Perciò Levinas invita a non confondere il desiderio con la nostalgia. Infatti esso non aspira al ritorno perché è la tensione ad un paese nel quale non siamo mai stati»¹².

Ascoltando il silenzio, l’uomo può intercettare – da ultimo – il Senso che innerva il reale. Che cos’è il Senso? È ciò – potremmo dire – che sta al di là dei significati che diamo alle cose o che rintracciamo in ciascuna di esse, scegliendo inevitabilmente cosa diventare o per cosa combattere, che cosa amare e che cosa odiare; è ciò che, detto altrimenti, κρύπτεσθαι φιλει¹³, ama nascondersi. Il silenzio è certo uno dei luoghi preferiti in cui il Senso si cela e in cui, celandosi, offre comunque segni della sua presenza: una presenza che mostra l’insensatezza di chi cerchi il perché del finito nel finito stesso e che rinvia ad un luogo estrinseco alla pura immanenza e ad un’Alterità totale, irriducibile all’interiorità umana e pure capace di farla fiorire, suggerendole la sua vera vocazione nell’avventura dell’essere.   

¹  Cfr. R. Mancini, Il silenzio, via verso la vita, Qiqajon, Magnano 2002, p. 22.

² F. X. Bellamy, Dimora. Per sfuggire all’era del movimento perpetuo, Itaca, Castel Bolognese 2019, pp. 61-64.

³  Cfr. B. Pascal, Pensieri, n. 168, in Idem, Opere complete, Bompiani, Milano 2020, p. 2349.

 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, pp. 331-332.

 Cfr. M. Baldini, Educare all’ascolto, La Scuola, Brescia 1988, p. 29.

 Cfr. Ibi, pp. 21-22.

 Cfr. R. Guardini, Il testamento di Gesù, Morcelliana, Brescia 1993, p. 39.

Cfr. M. Picard, Il mondo del silenzio, Servitium, Troina 2006, p. 61.

R. Mancini, Il silenzio, via verso la vita, p. 24.

¹⁰ Cfr. A. Camus, Opere, Bompiani, Milano 2000, p. 1262.

¹¹ Cfr. R. Mancini, Il silenzio, via verso la vita, p. 58.

¹²Ibi, p. 58.

¹³Cfr. Eraclito, Frammenti, Bur, Milano 2013, fr. 123, p. 229.


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