Leggendo il suo intenso saggio sul silenzio mi ha colpito la definizione che propone: il silenzio è l’intorno, è l’intervallo, è un’arte.
Indubbiamente è una cosa doppia (ma cosa mai non lo è?): perché il silenzio è l’intorno e l’intervallo.
Tutto ciò che c’è, infatti, accade nel silenzio che sta intorno da sempre: e dove se no? Il silenzio è prima di ogni cosa. Però è anche tra le cose: le separa. E così è anche dopo.
Il silenzio non è «qualcosa», caso mai è la negazione di qualcosa. Considera questi comuni modi di dire: «Si era fatto silenzio»; «Fai silenzio!» Oppure come dice il poeta: «Il resto è silenzio». Il silenzio è un resto, ciò che resta quando qualcosa non c’è più. Un resto che riconduce all’inizio: prima che quel qualcosa ci fosse. Prima che qualcosa, come si dice, «rompa il silenzio».
Questo è l’intorno; e l’intervallo?
Il silenzio fa da impercettibile intervallo al mutare di ogni stato di cose, cioè a ogni «cosa», come si è soliti dire. Il silenzio è uno ma è anche due. Contiene il tutto ma anche lo divide in ogni sua cosa o parte. E’ perché ogni cosa è fatta dal silenzio e di silenzio che anche è ed è quella cosa che è, separata da ogni altra….è per questo che il silenzio è un’arte. Non è affatto facile intenderlo, ancor meno usarlo, sebbene sia ovunque e in ogni cosa. E anche in ogni arte. Ma, anzitutto, in quell’arte di ogni arte che è l’arte della parola.
In che relazione stanno silenzio e parola?
La parola rompe il silenzio. Ma lo fa anche apparire. C’era già prima (si direbbe), ma solo ora che non c’è più, in qualche modo lo si avverte. Bisogna pensare allora che ci siano diversi tipi o modi del silenzio.
C’è il silenzio dell’essere umano che parla; c’è il silenzio dell’infante che non parla; e c’è il silenzio dell’animale che, direi, né parla né non parla: un silenzio difficile da considerare, anche perché siamo noi a parlarne (lui non se lo sogna nemmeno, né lo farebbe mai).
Nel rapporto tra il linguaggio e il silenzio vi è una sensibile complessità….
Saper fare non è lo stesso che sapere cosa si fa e saper parlare non è il medesimo che sapere di cosa si parla. E ciò in due sensi: che io posso fingere di intendermi della cosa di cui parlo; per esempio di come si fanno le buche per nascondere gli ossi, che invece non ho mai fatto e neppure ho osservato come fanno i cani; oppure che io fingo in generale di sapere a cosa in ultimo allude il linguaggio. Questa però è la finzione cui ricorrono tutti i parlanti, non perché amino mentire, ma semplicemente per poter parlare e intendersi tra loro.
Qual è l’equivoco che va evitato?
…tra sapere che, parlando si allude alla realtà, ovvero a ciò che è silenziosamente altro dalla parola che rompe il silenzio, e sapere che cosa sia ciò che la parola nomina come «realtà» ovvero come ciò che è altro dalla parola, compresa la parola «realtà». Se dico «Attento! Vedi il lupo sta per acchiappare l’agnello!» e se anche tu ora lo vedi per avertelo detto e corri a salvarlo, in che modo tra noi avremmo finto? Ecco che torni sorridendo con l’agnellino tra le braccia e il suo cuore in tumulto.
Questo però dimostra che il linguaggio funziona, magari non alla lettera, ma per approssimazioni e accomodamenti, così come aggiustiamo via via con la mano i fiori nel vaso. Ma di che parla il linguaggio e chi è colui che lo parla, questo fingiamo di saperlo, ansiosi come siamo di cancellare o almeno di nascondere il silenzio che ci abita, ci circonda e ci sovrasta. Se ce lo chiedono, infatti, rispondiamo subito ancora con parole da non prendersi alla lettera: in che altro modo del resto potremmo rispondere? Questo però, di nuovo, non è tutto.
Cosa ci vuol dire?
Vedi, l’agnellino è in salvo nel prato; insieme lo osserviamo; lo guardiamo in silenzio mentre ruzza felice. A questo risultato ha contribuito non la lettera la ma carità del linguaggio. Ed è così che, almeno per il momento o per un po’, ogni domanda cade nel silenzio.
Nel libro racconta la storia di Cartesio, per mettere in evidenza l’ambigua correlazione che esiste tra la ragione e il silenzio.
Quest’uomo che molti hanno descritto come freddo e arido, accorto e prudente sino all’ipocrisia gesuitica, aveva stimolato con ferreo e lucido volere la forza del suo intelletto; ma fu solo quando, stremato, si arrese al silenzio della notte e del sonno della mente che, dietro i progetti della ragione o dal suo stesso profondo, emersero i tratti di quella soluzione e del senso ultimo di quella ricerca che l’attivo fragore diurno del pensiero non era riuscito ad afferrare. E fu proprio il silenzio della ragione, ovvero il suo sonno, a vanificare gli incerti fantasmi diurni dell’errore e mostrare la via.
A suo avviso perche può accadere ciò?
Forse perché la luminosità della ragione esige, per essere tale, uno sfondo d’ombra e di silenzio; forse perché ciò che è «razionale» nel procedere deduttivo e inferenziale è anche «reale» solo nella passione del sogno e del desiderio; o infine perché saggezza e follia, ragione e sragione si richiamano e si completano a vicenda.
E’ necessario mettere un limite al dire. In particolare alla parola del filosofo, presa in mezzo tra ciò che non si può dire e – evocando Wittgenstein – ciò che sarebbe meglio tacere. Lei cita in proposito Merlau-Ponty, quando afferma che «Il filosofo parla, ma è una sua debolezza inspiegabile: egli dovrebbe tacere, coincidere in silenzio e raggiungere nell’Essere una filosofia che vi è già fatta. Viceversa tutto avviene come se egli volesse tradurre in parole un certo silenzio che è in lui e che egli ascolta….»
Il «gesto»: ecco la via per risalire alla parola primordiale che rompe il silenzio del mondo. La parola infatti si intreccia col mondo, abita sin dall’inizio quelle cose che poi si sforzerà di dire, perché si intreccia anzitutto col corpo vivente ed espressivo del locutore. Atto del corpo e atto del linguaggio nel gesto fanno uno, ovvero mostrano una comune radice; sicchè, come dice Merlau-Ponty, «è il corpo a mostrare, è il corpo a parlare». Articolandosi nel gesto la parola si atteggia come uno degli usi possibili del mio corpo espressivo: «corpo vivente linguistico» (Sprachleib), aveva detto Edmund Husserl il maestro di Merlau-Ponty: ecco cos’è la parola e di che «carne» è fatto il suo silenzio. Si tratta allora di «rendersi sensibili a quei fili di silenzio di cui il tessuto della parola è intramato». E’ infatti nel silenzio e dal silenzio che l’io, il mondo e la parola emergono, tra loro originariamente uniti.
Ascoltare il silenzio, è il gioco bello e difficile che lei invita a fare, un esercizio necessario come via alla conoscenza.
Così come il mondo non è mai davanti a me, ma sempre mi circonda e mi attraversa, così come non faccio che vedere il mondo provenendo dal cuore del mondo, altrettanto accade alla parola. Essa non parla se non dal silenzio del mondo e del silenzio del mondo: quel silenzio che la parola custodisce e reca in sé; quel silenzio che è così raro e difficile saper ascoltare.
“Captare le parole sorde che l’essere mormora”, è per il filosofo, lei scrive, come la fatica di Sisifo. Si capovolge in tal modo l’ordine tra il parlare e l’ascoltare, tra dare le risposte e porre le domande. In questa prospettiva la parola del filosofo si propone come opportunità di legame con il mondo e con gli altri uomini nella ricerca della verità.
La virtù prima del filosofo non è la parola, bensì l’ascolto, non è la ragione espressa, ma la domanda silenziosa con il suo carico di angoscia e di stupore. In un certo modo la parola del filosofo è la coscienza desta della vita che è in tutti e che in tutti aspira a farsi parola e a raggiungere l’espressione adeguata, come giusta eco del silenzio del mondo. In questa sua peculiarità, e in questo suo limite, la parola filosofica, che sembra talora, a una considerazione superficiale, la più lontana, la più distaccata e la più ostica per la comprensione media e comune, è in realtà la più concreta e alla mano: aspirazione silenziosa che vive nell’esperienza di tutti e che è cercata e detta per tutti.