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La distanza di un velo

Autore

Emanuela Fellin
Emanuela Fellin, pedagogista clinica, svolge la sua attività professionale, di studio, ricerca e consulenza per lo sviluppo individuale, sia con l’infanzia e l’adolescenza, che con gli adulti. Si occupa di interventi con i gruppi e le organizzazioni per la formazione e lo sviluppo dell’apprendimento e della motivazione. L’impegno di studio e applicazione è rivolto agli interventi nei contesti critici dell’educazione contemporanea, sia istituzionali che scolastici. Le tematiche principali di interesse vertono sui concetti di vivibilità, ambiente, cura e apprendimento. I metodi utilizzati sono quelli propri della ricerca-intervento e della consulenza al ruolo per lo sviluppo individuale e il sostegno alle dinamiche dei gruppi e delle organizzazioni.

Mi preparo, come spesso accade nella mia professione, ad accogliere un candidato o una candidata che devono fare un colloquio per un posto di lavoro.

Immagino cosa significhi per loro sedersi dall’altra parte del tavolo e descriversi, narrarsi, raccontarsi, cercare di non far trasparire le debolezze o le fragilità per farsi vedere “invincibili”, adatti per il posto di lavoro.

Tendenzialmente sono molto interessata a ciò che le persone portano con sé in quei momenti, quarantacinque minuti, un’ora, a volte anche di più. Mi lascio trasportare dai loro racconti e cerco di raccogliere le informazioni fondamentali per una persona che, come me, si occupa anche di selezione, parola che nella lingua italiana ha due aspetti fondamentali. Selezionare infatti significa sia scegliere che scartare. Differenza sostanziale che crea un ardito destino per la persona che si trova seduta “dall’altra parte”.

Prima di un colloquio leggo attentamente i Curricula dei candidati, ultimamente poveri di contenuti, molto formali, che sottolineano solo le esperienze lavorative, ormai sempre più brevi e numerose, e mancano completamente di ciò che una persona coltiva nel tempo libero. Le passioni e le attività che sostengono e che alimentano i desideri e le competenze, tanto ricercate nelle aziende.

Scivolano sulla sedia del luogo in cui svolgo i colloqui, persone di origini diverse, con storie e culture straordinarie, più o meno interessanti e più o meno stimolanti per un selezionatore o una selezionatrice. 

Nell’azienda in cui lavoro stiamo cercando persone che possano portare le proprie competenze nella produzione: manualità, voglia di imparare, desiderio di mettersi in gioco, capacità di lavorare in gruppo… Guardo il curriculum di una donna sulla quarantina che si candida per un posto, possibilmente in giornata per esigenze famigliari. Tunisina di origine, scopro poi che vive da sola con due figli piccoli, una laurea in Ingegneria Industriale, che nel nostro difficile Paese non viene riconosciuta, si è iscritta infatti alla magistrale per ottenere il titolo di cui già è in possesso. Rimango perplessa di questa candidatura, in quanto cerca un posto come operaia semplice, con una laurea in Ingegneria e tre esperienze importanti come Quality Manager in tre multinazionali. Le persone intraprendono percorsi di studio nei loro Paesi di origine, anche di alto livello, con esperienze lavorative di un certo livello, sono portatrici di competenze altamente specializzate e che potrebbero fare la differenza nelle nostre aziende ma non siamo preparati a questo tipo di innesti. Mi torna alla mente il percorso di studi e, successivamente lavorativo, di Indra Krishnamurthy Nooyi, ex CEO di PepsiCo, attualmente membro del Consiglio di Amministrazione di Amazon, nel quale si evince in maniera predominante l’importanza di aver conosciuto manager e amministratori delegati che hanno creduto in lei e con i quali sono state possibili relazioni di stima reciproca. Ancora una volta le relazioni, anche all’interno delle aziende, divengono un aspetto imprescindibile per creare reti di accoglienza e di ascolto, volti a valorizzare ciò che l’altro può portare e non ciò che l’altro può togliere.

La incontro, la accolgo con un sorriso e con la classica stretta di mano. Mi presento: “Piacere Ingegnera, sono Emanuela Fellin e sono la Responsabile Risorse Umane”.

Mi siedo e la osservo mentre sorseggia il suo caffè che la nostra responsabile dell’accoglienza offre a tutti i candidati. È una donna molto elegante, un vestito pieno di fiori colorati e un velo che le copre il capo ma lascia scoperto il viso olivastro, due occhi grandi e scuri, che denotano la determinazione, la sicurezza ma anche la sofferenza di una vita vissuta con grandi sofferenza. Da uno sguardo si capisce anche questo, si percepisce, si coglie, si sente sulla pelle ad ogni incrocio degli occhi. La cosa che mi colpisce di più nel primo istante in cui iniziamo a parlare è la sua tranquillità, la sua serenità che poi scopro essere stata conquistata con dolore e separazione dai suoi affetti primari.

Il suo è l’esempio sordo di un esodo tacito, di donne che scappano dalle violenze e dalle vessazioni dei luoghi famigliari, di mariti pericolosi, di situazioni purtroppo sempre più frequenti. Dopo il divorzio è scappata, è arrivata in Italia, in una città dove ha incontrato altre donne che portano sulle spalle il peso di una storia che è toccata loro in sorte ma dalla quale vorrebbero fuggire. Decide allora di aprire un’associazione per l’emancipazione delle donne musulmane che vogliono provare ad essere felici e le aiuta a trovare lavoro per riuscire ad avere un’indipendenza economica che consenta loro di rifarsi una vita e crescere i propri figli in una condizione diversa e dove possano apprendere che le relazioni non sono fatte di prevaricazione, possesso e violenza, verbale, psicologica e sessuale.

Ascolto la sua storia e penso a quante vite hanno vissuto e stanno vivendo questa situazione.

Intraprendere un viaggio per cambiare la propria condizione ormai è una consuetudine dei nostri giorni.

Mi torna alla mente un libro che ho letto poco tempo fa, il romanzo Male a est, della collana «Incursioni» della Italo Svevo Edizioni. È una narrazione dura ma allo stesso tempo affascinante sulle migrazioni di popoli che dall’Est si ricongiungono a famigliari che sono già partiti per trovare lavoro in Italia. La caratteristica peculiare del romanzo è la narrazione della protagonista che vive la partenza dalla sua cittadina per trasferirsi in una città del Nord Italia e vivere sulla pelle il senso di inadeguatezza e la difficoltà ad inserirsi in una cultura diversa.

Nella maggior parte dei casi l’esodo è tacito, sommerso, non dichiarato ma passa in sordina perché le persone che decidono di migrare volontariamente sono spinte da una disperazione di fondo che molto spesso non riusciamo a comprendere, o non conosciamo. 

La storia dovrebbe aiutarci a capirlo ma spesso è più comodo far finta di non conoscere.

Concludo il colloquio con questa persona e mi rendo conto che è passato molto tempo. Sento di essere uscita arricchita da questo confronto e dall’ascolto della storia della sua vita. La ringrazio e lei rimane sorpresa di questo gesto. Molto spesso dietro ad un velo si nascondono persone meravigliose che andrebbero solo ascoltate e valorizzate.

Queste vite che si appropriano di sé stesse o provano a farlo, scegliendo esodi forzati, 

sono forse le vere protagoniste di un mondo a venire. In fondo chi decide di esodare, di lasciare un intero mondo, si propone come la vera candidata di un mondo che può solo abbandonare il proprio presente per crearne un altro. Queste vite sono, allora, un idealtipo o una metafora del tempo in cui viviamo. Con il loro coraggio e il loro dolore ci propongono l’esodo come via per creare un mondo vivibile. L’auspicio è che la loro forza e la loro esperienza turbi e perfori la nostra cecità.

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