Esodo è fuggire da qualcosa o qualcuno presso cui è disagevole sostare. È questa la condizione d’esistenza dell’esodo: lo star male in una situazione. Consideriamo per un momento la storia della nostra specie. La nostra tendenza è a stabilirci in un posto e rimanere fissi e nell’abitudine. È necessario uno stimolo vitale per costringerci a muoverci, com’era ad esempio nell’età in cui, nomadi, ci spostavamo seguendo il ritmo delle stagioni per avere di che cibarci; da secoli, scappiamo in massa dalle guerre e dalle carestie, emigriamo per l’insostenibilità delle condizioni di lavoro, vita, prospettive di carriera – nei migliori dei casi –, di schiavitù e sfruttamento – in quelli più numerosi e disperati. Andare via, letteralmente andare fuori (ἐξ/ex) strada (ὁδός/odòs), lo si fa quando non si riesce a stare fermi dove si è già e quando fuori da quella situazione c’è qualcosa di necessariamente diverso. Non sempre migliore. Diverso.
La particella essenziale di ciò che esodo significa caratterizza dunque gran parte di tutto ciò che nella nostra vita è movimento nel senso più o meno figurato della fuga da. Questo consente di mettere a fuoco il perché l’esodo è una dimensione senza tempo, anzi, una dimensione che è entrata essa stessa nel panorama di senso della vita umana, che ha interiorizzato la dimensione della fuga, ampliandone il valore simbolico attraverso la metafora e la dimensione psichica. Come si fugge dalla guerra, si fugge dai propri sentimenti, si scappa dall’amore e le sue forme per non averne ricevuto abbastanza, si tentano peripezie chimiche, si fugge dall’attesa mettendosi in cammino, si fugge dalla scomodità che a volte abita proprio nello stare fermi. Si fugge dentro sé – un esodo interno – per non riuscire a definire una cornice di senso all’interno del mondo che ci vive attorno, al quale, fuggendo, tentiamo di non appartenere, andando incontro a prospettive nichiliste. Si fugge dal fuggire costringendosi una sosta innaturale.
Innaturale perché muoversi ha a che fare con il nostro essere mutevoli, mortali, finiti. Soltanto gli dèi risiedono sull’Olimpo, a noi è dato di correre. Ci muoviamo perché non siamo comodi, ci muoviamo perché ci manca sempre qualcosa. Come si erano accorte le civiltà greca prima e tedesca poi, esistiamo in effetti poiché ci manca qualcosa: dall’aria che necessitiamo di respirare – “Leben ist ein Mangel” –, alla felicità che rincorriamo per tutta una vita cercando di corrispondere ciascuno al proprio demone – eu-daimonia. Una condanna massimamente prolifica, questo nostro esodo esistenziale. In fuga per costrizione altrui, in fuga da noi stessi per poter scoprire chi siamo, adolescenti perenni che tentano continuamente di coincidere con sé stessi, abbiamo costruito miti, mondi letterari, musica e opere di vertice, dall’Odissea al Mar Rosso, dal Klezmer ai tagli di Fontana.
Esodo è parola e tematica che risuona potente anche in questi nostri giorni, come se la questione, scomoda per definizione, venga a bussare alle nostre porte e alle nostre coscienze per palesarci la nostra fragilità. Secondo le stime dell’UNHCR, più di 8 milioni sono gli emigrati dall’Ucraina dall’inizio della guerra, lo scorso 24 febbraio 2022; Lampedusa vive un’indisponibilità quantitativa all’accoglienza che da decenni è strutturale. Dopo il periodo di limitazioni imposte per arginare la pandemia da Covid, le persone in occidente hanno provato uno schizofrenico bisogno di muoversi, tutti quanti, all’improvviso e senza perdere tempo, nella lacerazione degli attimi – altro che momenti – di autolettura, un esodo contemporaneamente concreto e figurato dalla propria casa. In questi stessi giorni, il libro più venduto tra la saggistica in Italia è Resisti, cuore. L’Odissea e l’arte di essere mortali di Alessandro D’Avenia, che di esodo parla a partire da quell’uomo che ne portava il nome e che ci ricorda l’orizzonte di senso dell’antropologia greca, che ritorna ricordandoci chi siamo. In un certo senso, un fare ritorno come esodo dall’esodo compiuto da noi stessi. Nei giorni scorsi sono apparsi su riviste come «Doppiozero» e «Antinomie» due articoli che raccontano rispettivamente di nomadismo (Giampiero Comolli) come condizione dei popoli che hanno plasmato la nostra civiltà e di uscita dalle mura (Federico Ferrari), esodo dal consentito e dall’ordinario come prospettiva di nascita per qualcosa di nuovo, come frontiera del pensiero.
E queste sono soltanto le cose che ci guardano da vicino, prossime per vicinanza. Quanti esodi sta vivendo il mondo, ora?
All’interno di questo contesto – di avvenimenti, umanità, riflessioni, tempo – si inserisce convintamente la riflessione sull’esodo di Passion&Linguaggi, che questo mese si è concentrata sulle tante e diverse sfaccettature di senso che l’esodo ha nella nostra storia, nelle soglie del nostro pensiero, nelle esperienze delle nostre vite – particolari e universali –, nella letteratura antica e del nostro tempo, nella poesia, nei miti che raccontano a noi stessi chi siamo. Una collezione di pezzi su un tema che, coincidendo con l’anima stessa della rivista, chiede alla riflessione di mettersi in movimento per battere strade nuove che solchino la contemporaneità e le esperienze che la compongono. Per non perdere il grande significato dell’esodo, per andare fuori strada, alla ricerca indomabile di prospettive nuove nella costruzione di significati e orizzonti di senso, a partire dai margini del possibile.