“Andare sulla fune è vivere,
tutto il resto è aspettare”
Karl Wallenda
Può il corpo con la sua fisicità naturale esodare da sé stesso? Come fa una cosa materiale a produrne una immateriale che non è del tutto riducibile alla cosa che l’ha prodotta? Può il cervello, parte di quel corpo, generare un esodo da sé stesso che assume connotazioni estatiche tali da risultare, per ora, inspiegabilmente riconducibili e riducibili alla natura stessa di cui il cervello è fatto e che quell’atto ha generato? Sì, perché nonostante sappiamo che è quel cervello corpo che produce quell’estasi, non siamo in grado (per ora?) di dire come ciò accada. Tutti i tentativi finora fatti forniscono non poche indicazioni, nessuna delle quali risulta però risolutiva. L’atto creativo in arte, e l’esperienza estetica ed estatica che quell’atto genera in chi lo realizza e in chi ne fruisce, sono prima di tutto un evento corporeo. Si può riassumere così, a più di dieci anni di distanza dalla prima edizione di un libro, Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, Allemandi & C, Torino 2010, l’ipotesi del paradigma corporeo per comprendere l’esperienza estetica di trascendenza di noi umani. L’incontro e il dialogo con il pensiero e la ricerca di Vittorio Gallese fu e rimane decisivo per formulare quell’ipotesi e la svolta che abbiamo voluto imprimere al tentativo di comprendere l’esperienza estetica e la creatività artistica. Una tensione sembra animare il rapporto con il mondo, una tensione che rinvia oltre e risulta inappagabile, nel tentativo conflittuale di esprimere almeno in parte quel che il creatore sente, pur sapendo che sarà sempre eccedente rispetto alla sua capacità di espressione. Quell’apertura del mondo interno che supera la soglia della normale sensibilità, sollecita l’autonomia ad accogliere la dipendenza dai segni che la realtà propone, dando vita a un conflitto estetico da cui scaturisce l’estasi creativa. Un momento, una contingenza eccedente, si verticalizza nell’orizzontalità dell’ordinario e si staglia sullo sfondo, generando un’inedita estensione di sé in chi crea e chi fruisce dell’atto creativo. Recentemente, in un suo testo, Bill Viola scrive: «Fare arte ha sempre costituito una lotta, e ci è voluto tempo per riconoscere che questo conflitto non nasceva dalla mia inettitudine, ma dalla difficoltà a conciliare il divario tra la profondità dei propri sentimenti e i limiti delle proprie capacità» [Il Sole 24 ore Domenica, 23 luglio 2023]. Prima ancora che ad un processo di traduzione, di rappresentazione e di pensiero, sembra essere di fronte ad un accoppiamento strutturale tra mondo e corpo-cervello-mente. Attraversato da quell’accoppiamento il corpo che crea sperimenta un capovolgimento sulla superficie della mente che assiste alle conseguenze di quel che accade e che la precede. Un’immagine per descrivere questo processo è quella di un esodo, dell’esperienza di esodare da sé stessi. Un analogo attraversamento si produrrà nel fruitore che vivrà la propria esperienza estetica percorrendo e ripercorrendo i movimenti e i gesti del creatore. Una risonanza incarnata, o meglio una catena di risonanze incarnate, danno vita all’esperienza estetica, quindi, e l’artista creatore si propone come l’ultima linea di difesa dal baratro, come colei o colui che ci strappa via da quella omologazione anestetica che ci rende conformisti e indifferenti gettandoci nel deserto e nel silenzio della saturazione. Un vero e proprio provocatore di esodi. Si realizza il paradosso posto così efficacemente dalla domanda di Clarice Lispector: «Como comenzar por el principio si las cosas suceden antes de suceder?» Sì, perché le cose cominciano prima di succedere, prima di venire all’esperienza consapevole. L’emozione che feconda l’esperienza estetica ed estatica sembra accendersi prima che arrivi al pensiero. L’attenzione a quel che precede la consapevolezza cognitiva dell’atto creativo e dell’esperienza estetica di fruizione è un filo conduttore della prospettiva che intende perseguire una comprensione del rapporto tra mente e bellezza per via naturale. C’è un’origine dell’origine che attende di essere esplorata e compresa. Quell’origine è fatta di attesa e genera attesa, dando vita a quella che a proposito del linguaggio e del suo uso estetico e per quel che riguarda le basi materiali della significazione Giorgio Prodi aveva definito la “pausa”. Quel tempo che ospita la tensione a creare o a conoscere, che contiene la germinalità e allo stesso tempo rinvia al possibile creando, è fatto di carne che trascende sé stessa, di corpo che esoda da sé medesima. Allo stesso modo in cui l’esodo degli ebrei, schiavi in Egitto, riuscì a trascendere i vincoli della sudditanza con un passaggio imprevedibile e inconcepibile. Entrando nel varco asciutto tra due muri di acqua si realizza il momento che trascende il vincolo e crea il possibile. Quell’esodo conduce oltre un presente che non poteva bastare.
L’esodo estatico mediante l’arte e l’esperienza estetica è la prova che l’esistente non basta.