Il gioco della finzione scenica

Autore

Rosario Iaccarino
Rosario Iaccarino, nato a Napoli nel 1960, dal 1982 al 1987 ha lavorato come operaio presso la SIRAM, assumendo l’incarico di delegato sindacale della Fim Cisl; nel 1987 è entrato a far parte dello staff della Fim Cisl nazionale, prima come Responsabile dell’Ufficio Stampa e dal 2003 come Responsabile della Formazione sindacale. Cura i rapporti con le Università e con l’Associazionismo culturale e sociale con i quali la Fim Cisl è partner nei diversi progetti. Giornalista pubblicista dal 1990. È direttore responsabile della rivista Appunti di cultura e politica. E’ componente del Comitato Direttivo e del Comitato Scientifico dell’Associazione NExT (Nuova Economia per Tutti).

Il teatro come arte della conoscenza

La rappresentazione non ha dunque fine. 
Ma è possibile pensare la chiusura di ciò che non ha fine. 
La chiusura è il limite circolare all’interno del quale 
la ripetizione della differenza si ripete indefinitamente. 
Vale a dire il suo spazio di gioco. 
Questo movimento è il movimento 
del mondo come gioco.

Jacques Derrida

Il teatro contemporaneo è in decadenza perché ha perduto 
da una parte il senso del serio e dall’altra il senso del comico.
Perché ha rotto con la gravità, con l’efficacia immediata
e mortale – in una parola, col Pericolo.
Perché ha rotto con lo spirito profondo dell’anarchia 
che è alla base di tutta la poesia.

Antonin Artaud

Se si vuole davvero cambiare qualcosa, 
bisogna cominciare a cambiare sé stessi, 
andare contro sé stessi fino in fondo. 
Il massimo impegno civile è l’auto-contestazione

Carmelo Bene

Le forme dello spazio scenico sono infinite. 
Infinita è l’anima dell’uomo che diventa attore 
e che attraverso il teatro torna uomo

Thomas Otto Zinzi

Esiste nella retorica corrente un modo di dire, diffuso quanto piuttosto abusato, specie nel mondo della formazione, che se venisse minimamente preso sul serio e agito contribuirebbe a cambiare le sorti di questa umanità a rischio di sopravvivenza, segnata da disuguaglianze, ingiustizie e invivibilità ambientale: “mettersi in gioco”. Questa affermazione postula infatti quanto meno una rielaborazione, se non una radicale messa in discussione del “già dato”,  insieme all’immaginazione di una prospettiva non coincidente con l’esistente. 

L’importanza del confronto critico: mettersi in gioco sul serio

È la direzione indicata su questo stesso numero di Passion&Linguaggi, da Ugo Morelli, quando afferma l’importanza di  quel confronto critico «che permette di esprimere i dubbi, di mettere in discussione le certezze», che «ci aiuta a smascherare i conformismi e anche le oppressioni che esercitiamo gli uni sugli altri», e «ci permette, inoltre, di riconoscere ed evidenziare quello che ci aliena, e di concepire, immaginandole – ecco l’infanzia! – concrete alternative all’esistente, di creare quello che prima non c’era». [https://www.passionelinguaggi.it/2023/09/01/la-fine-dei-giochi/].

Non è un’operazione di poco conto, tuttavia, cercare di riaprire quegli spazi nel mondo interno individuale e far rivivere quel “narcisismo primario” di conio freudiano – fonte di originalità di ciascun soggetto, e perciò riconoscibile dall’altro da sé e condizione stessa dell’intersoggettività – condizioni essenziali perché il mettersi in gioco non rimanga solo una cinica retorica. Bisogna infatti fare i conti con le recenti puntuali affermazioni del maestro Roberto De Simone, etnomusicologo e drammaturgo di fama mondiale, che denunciava l’attacco al cuore dell’immaginario prodotto dal capitalismo industriale, ossia quella sorta di omologazione culturale che conduce alla sincronizzazione dei modi di esistere, portato del capitalismo delle piattaforme social, che ha generato nel contesto culturale contemporaneo un forte impoverimento simbolico. 

La manipolazione della sensibilità e la colonizzazione del desiderio veicolati dai social media ha tra gli indicatori più inquietanti, tanto per capirci, la sovrapposizione all’esperienza emotiva della sua rappresentazione virtuale attraverso le emoticon, che vuol dire in sostanza la sterilizzazione o comunque un serio disturbo della comunicazione tra le persone. Ciò non può far bene alle relazioni; anzi ad uscirne sconfitta è quella che Bernard Stiegler ha chiamato l’estetica del noi, che oggi necessiterebbe invece di essere curata con una terapia d’urto, ossia con una strategia educativa capace di intervenire sul terreno emotivo-affettivo per liberare dalla morsa deviante del digitale (non per colpa sua ma per l’uso che ne viene fatto) l’autenticità dei sentimenti e soprattutto la singolarità degli individui, senza la quale la differenza, e perciò la possibilità stessa della relazione, rischia di non esistere più. Reintrodurre l’arte nella vita è la strada maestra, secondo il filosofo francese, che in proposito immagina la funzione dell’artista, non solo simbolicamente, quale “espressione iperdiacronizzata della singolarità non eliminabile da parte del dispositivo industriale di sincronizzazione dei comportamenti e delle sensibilità” [B. Stiegler, La miseria simbolica, 2. La catastrofe del sensibile, Meltemi, 2022]. 

Il gioco istruisce il dramma: teatro e educazione come mimesi

La diacronia, paradossalmente, è oggi la condizione per far vivere le soggettività plurali e l’intersoggettività, consentendo a ciascuno di potersi  mettere in gioco, ossia partecipare deliberatamente e responsabilmente a una messa in scena che ha nel corpo – sede delle emozioni – il suo protagonista principale, in relazione con altri corpi. Una “parola corporea”, la definisce Jean Luc Nancy, che è voce, silenzio,  gesto, postura, andatura del corpo: “presenze di cui lo spaziamento apre le tensioni – i “conflitti” come dice Artaud – e il gioco istruisce il dramma [J.L. Nancy, Corpo teatro, Cronopio, 2010]. 

Istruire il dramma attraverso il gioco della finzione scenica è l’essenza del teatro e anche dell’educazione, che tuttavia si dà solo nelle forme in cui vengono allestite l’uno e l’altra come mimesi. Quando cioè sono capaci di riprodurre attraverso la rappresentazione teatrale della realtà quel come se di batesoniana memoria, dove azioni finte e simulate evocano situazioni attinenti alla vita quotidiana, e perciò sono in grado di restituire il senso e i significati delle nostre azioni. Quella proposta da Gregory Bateson, come ricorda Alfonso Maurizio Iacono, è una sorta di meta-comunicazione , «necessaria per costruire quella cornice che racchiude un’interazione, una relazione tra due esseri che comunicano e fanno sì che dentro di essa il gioco è un gioco dove si finge…» [https://www.passionelinguaggi.it/2023/09/01/il-gioco-e-la-nascita-dei-mondi-intermedi/].

Il gioco della finzione scenica descrive, rispetto al sentire comune, un’altra traiettoria sia del linguaggio poetico e teatrale sia di quello educativo, rimettendo al centro il processo piuttosto che il suo esito, la ricerca dell’autentico piuttosto che la verità: è un processo di destrutturazione e ricostruzione, di rottura di schemi mentali e comportamentali, di denudazione, di esplorazione e ri-conoscimento di sé. È, come direbbe Carlo Sini, una “parte di mondo che replica il mondo, che lo dà a vedere come corpo in azione” [C. Sini, A. Attisani, Teatro e conoscenza, Jaca Book, Percorsi Mechrì, 2021]. L’azione scenica del teatro, in questa ottica, si fa anche metafora di una pratica educativa «che istituisce un mondo di rappresentazione e rielaborazione della vita (…) Quello che è specifico della consapevolezza teatrale è che la nostra vita può essere ripresa in mano, esplorata, interpretata, elaborata. Questa consapevolezza viene tematizzata nell’evento teatrale ed è simile alla consapevolezza pedagogica…» [R. Massa, La peste, il teatro, l’educazione, a cura di F. Antonacci e F. Cappa, Franco Angeli, 2001].

Quale teatro aiuta a mettersi in gioco?

Bisogna risalire ad Aristotele e alla sua Poetica per comprendere il fondamento del linguaggio artistico in relazione alla trasformazione sociale e per stabilire il nesso corretto tra il teatro e l’educazione. Si deve in particolare alla ricerca di Antonio Attisani, attore, poi critico teatrale e docente universitario e fondatore della rivista Mimesis Journal, in primis la riscoperta in una chiave riveduta e corretta del pensiero del filosofo stagirita circa il concetto di mimesi , che è «da intendersi non solo e non tanto come imitazione bensì come ricerca di una conoscenza essenziale, e che il poiein in effetti è composizione, attività trasformatrice delle cose” [C. Sini, A. Attisani, Teatro e conoscenza, op. cit]. Il passo successivo della ricerca di Attisani è  la proposta di una «filosofia fisica»,  condivisa con Florinda Cambria e Carlo Sini nel progetto di ricerca Mechrì. Una filofisica che fa riferimento alle arti dinamiche (teatro, musica e danza) nelle quali, come afferma Sini, «si genera conoscenza mediante l’azione». 

Un teatro che è arte della conoscenza, tende ad abbandonare schemi epici, ideologici, pedagogici, estetici, con al centro le parole e le idee, e che invece intende abbracciare, ricomponendo carne e spirito, emozioni e ragione, anima e corpo, quella rappresentazione scenica che il drammaturgo polacco Jerzy Grotowsky avrebbe definito una lotta per scoprire la verità su noi stessi, o uno strappare le maschere dietro le quali ogni giorno ci nascondiamo, e che Antonin Artaud, drammaturgo francese, immaginava capace di far gridare lo spettatore; un teatro nel quale sono in gioco non solo lo spirito dello spettatore, ma anche i suoi sensi e la sua carne. Lo spartiacque nell’elaborazione di Sini e Attisani sta nella radicale differenza tra un teatro che propone un “fingere narcotico” e quello che presenta un «fingere divertente e consapevole», posto che la poesia è un far accadere, e  che «il fare è la navigazione, essendo ognuno il mare il vento la barca e il timoniere…».

Arte, emozione, intersoggettività

Il teatro è la messa in scena delle contraddizioni. L’affermazione di Bernard Stiegler ci riconduce alla funzione saliente del teatro nella società odierna, che è innanzitutto riconoscimento delle singolarità e della differenza, e perciò dell’intersoggettività. Se l’arte vive, vive anche la relazione, lo dice la filosofia, oggi suffragata anche dalla ricerca avanzata delle neuroscienze. Infatti, come ci ricorda Vittorio Gallese, neuroscienziato del gruppo dell’Università di Parma che ha individuato i neuroni specchio, «l’oggetto artistico – che non è mai oggetto in sé stesso, ma polo di una relazione intersoggettiva, quindi sociale –        e-moziona in quanto evoca risonanze di natura sensori-motoria e affettiva in colui che si mette in relazione», perciò «interrogarsi sul teatro e sulla performance attoriale significa interrogarsi su noi stessi e sulla nostra natura di esseri eminentemente sociali» [V. Gallese, Il corpo teatrale: mimetismo, neuroni specchio, simulazione incarnata, https://cultureteatrali.dar.unibo.it/files/annuari_ct/CT16.pdf]. A Gallese fa eco la ricercatrice Maria Giulia Guiducci che parla dell’attore come di «un induttore di contatto, di scambio, che favorisce la stimolazione sensoriale, cognitiva, motoria e emotiva in sé, in chi calca con lui la scena e nell’audience» [M.G.Guiducci, Teatro e Neuroscienze: elementi per una neurobiologia della scena, https://cultureteatrali.dar.unibo.it/files/annuari_ct/CT16.pdf].

Il mistero e la potenza simbolica ed evocativa del teatro permettono un’azione sincrona tra attore e spettatore, una comunicazione affettiva (un’atletica affettiva avrebbe detto Artaud), tra sconociuti, tra estranei, perché il teatro, come l’educazione,  è capace in una certa prospettiva antropologica e culturale di generare eros, affettività, relazione, socializzazione, quando si istituisce una “partitura psico-corporale”, come direbbe Grotowsky. Ed è in questa prospettiva dell’arte come «formazione di un Sé che diviene consapevole del suo transitare», come ripetono Sini e Attisani, che il teatro oggi assume una sua particolare rilevanza educativa, «come la più antica forma del sapere, cioè come tramite sociale della conoscenza e della rappresentazione del destino umano nel mondo; conoscenza da quando l’essere umano ha usato il corpo e l’azione espressiva (il grido, il canto, il passo di danza) per raffigurare (raddoppiare) la vita, ovvero per esprimere il desiderio di vita eterna…» [C. Sini, A. Attisani, Teatro e conoscenza, op. cit]. 

Questa funzione nobile del teatro come arte della conoscenza subisce quotidianamente nella dimensione artistica come in quella educativa dolorosi tradimenti, sia quando lo si riduce a mero spettacolo, sia quando nell’ambito formativo, nella prospettiva economicista, diventa esercizio per affinare le competenze di marketing, o, in quella borghese e conformista, scade nella finzione della finzione scenica.

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