«L’uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare», scrisse il premio Nobel per la letteratura George Bernard Shaw. Osando una forzatura, si potrebbe dire che smettere di giocare assomiglia più all’atto conclusivo della nostra esistenza naturale piuttosto che corrispondere all’età della vecchiaia. Già, perché gioco c’è finché c’è vita, perché la stessa vita – e tutto ciò che una ne contiene – può essere osservata, riletta, pensata e considerata come gioco.
La collezione di contributi, poesie, racconti e consigli di lettura che dà corpo a questo numero di Passion&Linguaggi restituisce un mosaico di prospettive che si configurano come proposta di riflessione a partire dalla considerazione di base che la dinamica del gioco è la dinamica della vita.
Il gioco si impernia sulla finzione, sul fare “come se”, madre della creatività che genera l’arte, la poesia, la letteratura e le grandi invenzioni. Accorgersi che per ciascun gioco esiste un sistema di regole che servono per giocare a un gioco racconta del nostro essere intersoggettivi: ciascuna attività che svolgiamo, ciascun contesto in cui stiamo, ciascun luogo che frequentiamo ha la sua regola che ne definisce il perimetro e ne consente l’esistenza particolare. L’immaginazione necessaria a fare di una conchiglia un’astronave è la stessa che consente di pensare uno schema diverso, di rompere il significato ordinario delle cose e rompere le cornici del quotidiano, spalancando alla possibilità di mondi nuovi e prospettive originali. Il linguaggio in cui siamo immersi non si sottrae alla dinamica dei giochi linguistici; il funzionamento psicologico intersoggettivo che consente di stare dentro la situazione del gioco, di intuire insieme ad un altro le regole mentre si sta giocando, racconta a noi una componente fondamentale di noi stessi. E poi ci sono i grandi ambiti della vita: si gioca in amore e una vita si gioca nell’amore; si gioca col potere, con la sua fascinazione e il suo logorare; si gioca con la morte nell’attesa che sia lei a giocarci; si gioca coi figli, si gioca a fare i figli. Si gioca sempre.
In tutti questi sensi l’essere umano fa della vita un gioco e gioca tutta la vita, costruendo eccezionali metafore, giochi nel gioco. Il teatro, concentrato di finzione, diventa palestra di emozioni; il palco realizza lo spazio di verità e di riconoscimento che consente all’uomo, proprio attraverso quella finzione di cui/in cui si gioca, di pervenire a consapevolezza di se stesso in modo peculiare. Così fa la musica, il cui gioco (to play, spielen, jouer, jugar) fa vibrare l’anima e trasforma l’uomo. La narrazione dei romanzi ci consente di giocare le vite che non possiamo vivere, di sentire il freddo dell’Alaska mentre siamo all’equatore, allo stesso modo in cui è principessa una bambina che indossa un vestito a carnevale, cuoca delle proprie bambole.
Il gioco è una cosa seria e le cose serie possono essere giochi: per gioco si scrivono libri, si realizzano progetti impensabili, si parte per esperienze capaci di cambiare rotta ad un’esistenza, ma anche si commettono crimini e le peggiori torture, si cade vittima di violenze, si getta il pianeta nell’invivibilità.
E se giocare non è divertirsi, cioè spostare lo sguardo altrove, ma è riscontrare significato e soprattutto porlo in discussione come regola, romperla per crearne di nuove e rendere reali mondi altrimenti soltanto possibili, la domanda è anche diretta all’origine, e ci chiede se stiamo ancora giocando o se siamo giunti alla fine dei giochi. Se la fine dei giochi sia un’opzione realmente praticabile dall’uomo o se l’inesorabilità di proseguire nel gioco sia più forte anche della fragilità umana.
Indubbio è che giocare è uno dei modi più autentici per giocarci la vita e consentire di farlo a chi verrà dopo di noi, in un mondo che, da sempre e per sempre, leggiamo come bisognoso di reinventarsi le regole della propria sopravvivenza.
Lunga vita ad ogni bel gioco!