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Pazienza come tempo di libertà

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«Come si vede la parola d’ordine (che io stesso fino alla noia ripeto), la regola fondamentale della democrazia è la pazienza».

Dovendo individuare una parola che esprima la virtù democratica più importante quale scegliereste? A quanto pare Alcide De Gasperi, che della nostra democrazia è stato uno dei padri, non aveva dubbi: la pazienza.
Lo affermava in termini espliciti nel 1952 dal palco di un comizio elettorale a Bolzano da cui è tratta la citazione d’apertura, ma lo troviamo tornare sul medesimo punto in moltissime occasioni: l’elogio della pazienza è centrale ad esempio nel celebre discorso di Bruxelles su Le basi morali della democrazia in cui riassunse i capisaldi della sua pedagogia civile.
La pazienza dunque.
Da De Gasperi, che fu uomo d’azione, noto per il motto “politica vuol dire realizzare”, ci si potevano attendere molte altre parole: concretezza, realismo, partecipazione, visione, competenza, determinazione, coraggio…

Perché proprio la pazienza?
Probabilmente perché nella considerazione dello statista di Pieve Tesino questa parola racchiude tutte le virtù citate e molte altre. Ma andiamo con ordine… innanzitutto, la pazienza di cui parla De Gasperi merita una definizione. Con questa parola egli non intende evocare una rassegnazione mite e passiva, né tantomeno la capacità di controllo e repressione degli impulsi. Neppure solo la capacità di tener conto delle “lentezze dell’uomo”, che pure De Gasperi aveva ben presenti. E non è neanche un sinonimo di tolleranza o sopportazione: consapevole egli stesso di poter essere frainteso, parlando ai cittadini di Caltanissetta pochi giorni prima delle storiche elezioni dell’aprile 1948 (le prime dell’Italia repubblicana) sentiva il bisogno di precisarlo: «pazienza non vuol dire non farsi sentire; avete il diritto e il dovere di farvi sentire […]; pazienza non vuol dire inerzia ma costanza nel lavoro per l’interesse pubblico».

Costanza, assiduità e determinazione nel cercare le strade che portano a superare le difficoltà piccole o grandi che si frappongono al perseguimento di uno scopo. Nulla di passivo insomma: questa è la pazienza degasperiana. In questa definizione c’è molto della biografia, prima ancora che del pensiero, del primo Presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana. Un uomo che in giovane età scelse la politica come missione di una vita e che ne pagò caro il prezzo, specialmente quando il fascismo tra le due guerre gli tolse tutto: il suo lavoro di giornalista, il suo scranno in Parlamento, il suo partito, la sua famiglia e la sua libertà. Nel 1928, uscito da un anno e mezzo di carcere, De Gasperi si incamminava verso la soglia dei 50 anni da perdente, condannato a restare ai margini della vita pubblica che tanto lo aveva appassionato. Sappiamo che il suo momento sarebbe poi arrivato insieme all’occasione di scrivere pagine fondamentali della storia del nostro Paese: prima però gli toccarono 15 anni di silenzio, di pazienza appunto. Di pazienza, non di immobilità: la sua non fu una resa, ma un’attesa. Animata dalla certezza che il fascismo non sarebbe stato per sempre e da una fondamentale fiducia nel futuro e nell’essere umano, che se talvolta può essere strumento di violenza e ingiustizia, nondimeno porta in sé sempre il germe del riscatto. “Non abbiamo il diritto di disperare dell’uomo, né come individuo né come collettività; non abbiamo il diritto di disperare della storia” dirà alcuni anni più tardi nel citato discorso di Bruxelles.
Questa fiducia che sorregge la pazienza degasperiana è qualcosa di altro dalla speranza e qualcosa di più dell’ottimismo: è un atto di fede nell’umano e insieme un atto di umiltà nel riconoscere che le logiche della storia ci trascendono e sarebbe vano illudersi di poter imporre alle dinamiche collettive il ritmo di una volontà individuale. Comprenderle è più saggio che forzarle, anche per chi non è disposto a subirle. E così, mentre osserva il suo Paese scivolare verso la seconda guerra mondiale, De Gasperi non è inerte, ma partecipe. Dilata nello spirito gli spazi che sono preclusi all’azione, medita, osserva, si prepara.

La pazienza da un lato si presenta come un investimento sul futuro, riconosciuto come spazio del possibile e della realizzazione delle attese. Dall’altro però si manifesta come accettazione del presente, inteso come spazio del divenire, della maturazione, del processo. La pazienza quindi non si limita a tollerare il presente guardando al futuro, ma invita a vivere il presente, accogliendone l’incompiutezza e inserendola nella logica del divenire.
È interessante che proprio in questa dimensione De Gasperi individuasse anche l’argine principale contro il delirio narcisistico prodotto dal potere. Si spiegano così le parole che rese in punto di morte alla figlia Maria Romana: «Ho fatto tutto ciò che potevo, la mia coscienza è in pace. Vedi, il Signore ti a lavorare, ti permette di fare progetti, ti dà energia e vita, poi quando credi di essere necessario, indispensabile al tuo lavoro, ti toglie tutto improvvisamente. Ti fa capire che sei soltanto utile… E tu non vuoi… La nostra piccola mente umana ha bisogno delle cose finite e non si rassegna a lasciare ad altri l’oggetto della propria passione incompiuta».

In questo modo la pazienza degasperiana ci porta dentro un rapporto con il tempo forse lontano dalla sensibilità contemporanea, dominata dal risultato e insofferente al tempo dell’attesa. Ci invita a difendere un equilibrio tra presente e futuro e ad abitare i processi senza forzarli, attribuendo all’attesa una dignità operosa.
Più ancora, vivere la pazienza significa per De Gasperi comprendere che il proprio ruolo nella storia è al servizio e non al comando. Ed ecco perché la pazienza è virtù democratica per eccellenza: perché la democrazia ha bisogno di servizio più che di comando. Ha bisogno di uomini e donne disposti a rispettare il tempo dell’altro, a dare tempo alla maturazione del pensiero collettivo, a difendere gli spazi della discussione, del dialogo, dell’elaborazione dei conflitti e degli scontri d’opinioni, a cercare con costanza i sentieri dell’accordo. Che spesso non sono i più lineari e veloci, ma che sono di tutti. La democrazia infatti si riverbera nei suoi processi più ancora che nei suoi risultati e i processi chiedono tempo. 

Di fronte alla sensibilità contemporanea, dominata dal risultato e per questo sempre più tentata da modelli autoritari più veloci e efficienti, la pazienza degasperiana è il tempo della democrazia. Il tempo della libertà contro l’efficientismo dell’uomo solo al comando.

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