Mantenersi nella sofferenza. Etimologia dell’attesa

Autore

Carlo Pacher
Carlo Pacher, classe 1995, lavora per la formazione e lo sviluppo delle persone in La Sportiva. Ha conseguito una doppia laurea in Scienze Filosofiche presso gli atenei di Padova e Jena, in Germania, con una tesi dal titolo: "Intersoggettivà, costruzione, limite. Intorno alla riflessione hegeliana sul linguaggio", tema a cui ha lavorato sotto la guida dei Professori Luca Illetterati e Klaus Vieweg. Precedentemente aveva affrontato il tema della conoscenza di sé in Platone per l'elaborato di tesi triennale con il Professor Carlo Scilironi. Nell'estate 2021 ha preso parte al corso executive "Strategie e nuovi modelli di sviluppo sostenibile" presso CUOA Business School. Attivo in più realtà di volontariato sociale a livello locale, musicista per passione.

«Se c’è una cosa che mi fa spaventare
Del mondo occidentale
È questo imperativo di rimuovere il dolore»

Brunori Sas, Secondo me, 2017

“Attendista” è un termine che rende in modo particolarmente efficace il significato sghembo che oggi si conferisce all’attesa. Treccani indica che “attendista” è detto «chi non prende posizione, spec. nel comportamento politico, in attesa di decidersi secondo l’evolversi degli avvenimenti». In particolare, il vocabolo si connota delle attuali sfumature di significato «in Italia, dopo il 1943, con riferimento alle condizioni italiane nei confronti della Germania, ad indicare chi attendeva l’arrivo degli alleati (detto anche attesista)» (cfr. Treccani, vocabolario online).

E che si è fatto, nel mentre che s’aspettavano gli alleati?

Ci siamo abituati ad intendere l’attesa come un aspettare passivo e poco impegnativo, uno starsene sulla difensiva senza sbilanciarsi, un mantenersi in uno stato di sicurezza – o meglio: tutela – psicologica e nel frattempo “stare a vedere che succede”, magari “senza muovere un dito”. È curioso e importante, tuttavia, constatare la distanza concettuale che intercorre tra questo nostro intendere immobile e il significato che hanno, in verità, le stesse parole che utilizziamo per dire ciò (che quindi non intendiamo). Molto precisa e molto ricca risulta, infatti, l’architettonica consonanza semantico-concettuale del polo che designa, tenendosi circolarmente in uno, l’attendere, l’aspettare, la pazienza e un certo tipo di sofferenza che ne deriva. Vale la pena, pertanto, immergersi un poco nell’etimologia per recuperare la finezza e la consapevolezza umana che si sono depositate in queste parole, che insieme ci offriranno lo spunto per una rinnovata e più piena comprensione dell’attesa.

I. Attendere

Attesa è sostantivo di attendere: dal latino ad-tendo, tendere a, essere in tensione verso, dove la particella ad indica moto a luogo. Come la corda di un arco che si tende per permettere alla freccia di scoccare, così l’attesa è una situazione dinamica, attiva e non passiva, in uno stato di tensione e non di quiete. Nel mentre che attendiamo, noi non stiamo fermi, tutt’altro: siamo contratti in una posa al limite massimo della tensione, in cui i sensi sono massimamente attivi, i nervi e i muscoli sull’attenti, pronti per librarsi in un movimento non appena scatti il momento opportuno. Con un’immagine, l’attesa del centometrista che attende lo sparo ai blocchi di partenza di una finale olimpica: difficile pensare ad uno stato in cui la totalità dell’organismo debba essere più affilata e reattivamente pronta

II. Aspettare

Proprio come un corridore, l’attendere passa il testimone all’aspettare. Anch’esso dal latino exspectare/aspectare, frequentativo ed intensivo di aspicere (guardare), e dunque con il significato di guardare attentamente (attendendo qualcosa o qualcuno), essere rivolto con lo sguardo verso qualcosa. Sinonimo stretto di ad-spicere, stare rivolto verso qualche parte, da cui anche aspetto, che connota una parte, un verso di un oggetto o persona. Fratello dell’attendere, l’aspettare è un verbo che insiste maggiormente sul senso della vista, restituendo anch’esso in modo puntuale la tensione del gesto. Non un guardare fine a se stesso, ma uno scrutare attento ed orientato.

Grazie all’approfondimento di questi due termini si recupera dunque una connotazione precisa circa quel che accade nel mentre che si attende e si aspetta. Una situazione di sforzo fisico e intellettuale che, prolungata, sfocia nella fatica fisica e nella difficoltà a mantenere fattivamente quella tensione che, massima, non può che concentrarsi in pochi e densissimi istanti prima di sfociare nell’esasperazione e nell’esaurimento delle energie. L’attesa risulta, a pensarci un poco, mediatamente correlata al tempo, che è l’altro grande fattore in campo. La capacità che tipicamente riconosciamo infatti come necessaria per poter reggere l’attesa è la pazienza.

III. Pazienza

Il termine pazienza riconduce al latino pati – sopportare, soffrire, tollerare – e (soprattutto) al greco pàschein – ricevere un impressione, provare, sopportare e finalmente soffrire. La pazienza non ha a che fare dunque con un sopportare astratto e cerebrale in senso deteriore, quanto invece con la capacità di reggere, mantenere, sopportare un sentimento estetico di forte impatto sull’intero sistema corpo-cervello-mente. È utile ricordare come àisthesis, dalla quale la nostra estetica, significhi sensazione, sentire immediato, impressione. Pazienza significa allora la capacità di sostenere (sub-porto) e reggere (suf-ferre) lungo una certa durata temporale quella tensione estetica, impattante, faticosa e attiva che è l’attesa, e non già uno starsene passivamente in panciolle, “attendisti” che qualcosa succeda da sé.

Curare l’attesa e mantenerla con pazienza è operazione che, a livello personale, sottende costi importantissimi, una messa in campo di risorse ingenti e che rappresenta un’attività massimamente corrosiva se protratta oltre il tempo opportuno per gli accadimenti che devono necessariamente susseguirvi. In questo senso “situazionale” riscopriamo che anche la parola sofferenza condivide esattamente la stessa radice etimologica della pazienza, tenendosi perfettamente in uno rispetto a ciò che stiamo esplorando.

IV. Sofferenza e pàthos

Soffrire deriva infatti dal latino suf-ferre, ovvero portare su di sé, sop-portare. Noi soffriamo quando ci facciamo carico di un peso che, soli, portiamo fisicamente su di noi; un portare nell’accezione di un trascinare stentato (altrimenti non soffriremmo) e che rimarca l’elemento estetico (la metafora del peso che sentiamo sulle spalle, grazie alla quale si sottolinea l’intensità fisica della sofferenza come sensazione).

Sopportare è anche patire: l’ultimo immancabile tassello che, finalmente, chiude la circolarità che restituisce all’attesa il suo significato pieno, è la sofferenza nell’enorme senso greco del pàthos. Sentire, soffrire, pazientare sono tutti derivati dal polo semantico sviluppato attorno al pàthos, che deriva a sua volta, di nuovo e ancora, dal verbo pàschein. Nel significato che traduciamo con la vox media del sentire, pàthos declina il proprio significato con accezione negativa – soffrire come sentire dolore, da cui paziente e pazienza – oppure positiva – simpatia come sentire insieme o empatia come facoltà di comprendere l’intimo sentire altrui.

Che il pàthos sia nato per intendere l’impressione di sgomento fisico e viscerale ci viene infine dettagliato dalla Poetica – vero e proprio faro per la comprensione del meccanismo del pàthos nella tragedia –, nella quale Aristotele lo contrappone come elemento irrazionale di contro all’èthos (costume, comportamento, consuetudine), ovvero ad un sentimento più tenue e stabile in cui si può sostare senza problema di sorta, e al lògos, ovvero la parola e la ragione.

Il tratteggiamento del quadro semantico ci offre il gancio per un ragionamento complessivo e conclusivo a partire dalla capacità che si accompagna con l’attesa, la pazienza. Il ribaltamento di significati che siamo soliti porre in atto utilizzando la coppia di aggettivi paziente/impaziente non solo non rende correttamente il loro intendimento, ma ne ostacola addirittura l’accesso alla comprensibilità. L’im-paziente non è colui che è “agitato” né “l’anima in pena”, ma colui che non riesce a sopportare l’impegno e il costo dello sconvolgimento estetico generato dalla tensione dell’attesa, che non è capace cioè di reggere la sofferenza di quella situazione contratta; il paziente, di contro, raffigura in verità colui che è capace di abitare la tensione dell’aspettativa attiva e che sopporta il pàthos che ne deriva.

Ma se attendere è azione siffatta, come siamo riusciti a connotare questa pratica e la correlata pazienza tanto positivamente, riconoscendole financo come qualità, virtù, saggezza? Il punto focale sul quale spostare la nostra attenzione si fa a questo punto l’oggetto, la situazione, la persona per cui si agisce attesa.

La natura per prima ci insegna che alcuni fenomeni hanno l’attesa non come opzione, ma quale conditio sine qua non: la gravidanza richiede di aspettare, il corteggiamento, il maturare della frutta, l’evoluzione delle specie. Non si dice forse bene dei piantatori di noci, per il fatto che non mangeranno di quei frutti nell’arco di tutta la loro vita? Il problema si sposta piuttosto, allora, sulla tecnica di cui siamo capaci, che quasi senza accorgercene ci ha fatti clamorosamente scivolare nell’età dell’antropocene. Il fatto è che il nostro divenire sempre più abili nell’elaborare tecnologie veloci ci ha disabituati viepiù al tempo naturale con il quale le cose – ormai – avverrebbero, con un conseguente, schizofrenico ed esponenziale innalzamento della nostra soglia di impazienza, della nostra incapacità ad abitare l’attesa sopportandone la tensione. La nostra autoinvestitura estetica e morale – l’estetica è la madre dell’etica – è tale per cui da decenni interveniamo sulla contrazione e dilatazione dei tempi necessari affinché le cose succedano, e credendo di agire soltanto sulle cose o sui processi, non ci siamo accorti di aver trasformato soprattutto e primariamente noi stessi e le nostre reazioni. La pretesa di avere una super disponibilità di risorse ci ha fatto sviluppare agricolture ed allevamenti intensivi, mezzi per trasportarli il più velocemente possibile, per comunicarli istantaneamente, per comprarli immediatamente, in un delirio complessivo nel quale tutto ciò che è possibile fare tecnicamente, è possibile fare moralmente. Così abbiamo modificato anche il nostro attendere, sia nei riguardi del tempo, sia nei riguardi del contenuto. Che cosa attendiamo oggi? Di certo il nuovo prodotto del noto marchio con la mela, sicuramente il black friday, senza dubbio di andare in ferie per staccare un po’ dalla frenesia (appunto).

E però, occorre recuperare anche il portato positivo che valorizza la capacità attiva dell’attendere umano e che, infischiandosene delle coordinate storiche di volta in volta in essere, continua trascendentalmente a caratterizzare l’essere umano: un padre che, aspettando che il figlio venga al mondo, gli costruisce una culla coltivando nel mentre desiderio, gioia, paura; una fidanzata che, trascinando l’orario concordato, si fa attendere, stirando l’aspettativa desiderante la gioia dell’incontro degli amanti; il carico di aspettativa negli occhi di un bambino che, scrutando tra la folla, cerca gli occhi dei genitori venuti a prenderlo fuori da scuola.

Mettere a fuoco il significato attivo dell’aspettare ci restituisce un’impressione estetica che è madre di un monito etico. Aspettare è cosa seria, impegnativa, può essere logorante: a noi la responsabilità di praticarla assieme all’intelligenza di chiederci sempre quando, se e per che cosa valga la pena agirla.

Articolo precedente«È proprio dell’uomo attendere»
Articolo successivoNove Secondi

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Ultimi articoli

Sul trauma e sulla sua potenza ortopedica

NOTE PER UN APPROCCIO PEDAGOGICO ALLE GIOVANI GENERAZIONI Lavorare oggi come educatori nel mondo di giovani e adolescenti può...

Giovani curiosi o adulti in crisi?

Mi capita sempre più frequentemente, anche nella piccola realtà trentina, di selezionare giovani con idee molto chiare e con prospettive future completamente...

Mi trovo bene con Ann e Fry

Mi trovo bene con Ann e Fry. Oddio, bene? Diciamo che mi trovo meglio di quando ero costretta a stare seduta vicino...

Il primo lavoro: come cambia la percezione tra i ventenni di ieri e oggi

Entrare nel mondo del lavoro è sempre stato un momento carico di emozioni, aspettative e timori. Ma le paure e le sensazioni...

Ciottoli di me

Barcollo in queste vie lastricate zeppa d’incertezze noncurante di tutte le carezze che la vita mi dona una sola è la cosa che mi ustiona il...