Quarant’anni. Tanto ci è voluto perché allo scrittore Milan Kundera venisse restituita la cittadinanza del suo Paese d’origine, la Repubblica Ceca, che gli era stata tolta nel 1979, a seguito delle sue denunce contro la repressione della primavera di Praga e contro la linea dura perseguita dal Partito comunista anche in Cecoslovacchia. Qualche anno prima Kundera era emigrato in Francia, un territorio che è stato in tutto e per tutto una seconda casa per lui fino alla sua morte, avvenuta lo scorso 11 luglio. Molti dei libri che l’autore de L’insostenibile leggerezza dell’essere scrisse, infatti, sono in lingua francese.
Quarant’anni, dicevamo. Un tempo trascorso lentamente, un’attesa che non è stata ricerca spasmodica dell’oggetto perduto – un Paese, la sua cittadinanza – ma un impegno costante e per nulla passivo per avvicinarsi a quanto in quel momento era lontano. Quando la nostalgia e l’attesa si fanno frenetiche il ricordo dell’oggetto perduto rischia di sbiadire. «La nostalgia non intensifica l’attività della memoria, non risveglia i ricordi, basta a se stessa, alla propria emozione, assorbita com’è dalla sofferenza», scrive Kundera ne L’ignoranza, libro in cui descrive il sentimento che più di tutti è connesso all’attesa di qualcosa che forse mai ritornerà: la nostalgia.
Quarant’anni. Come passare un tempo così lungo in un’epoca in cui ci sembra di non avere il tempo di aspettare, di non avere spazio per il tempo sospeso dell’attesa? Kundera lo ha fatto prendendo carta e penna e regalandoci dei capolavori che rimarranno nella storia della letteratura. «Scrivere a qualcuno è l’unico modo di aspettarlo senza farsi del male», sono le parole che Alessandro Baricco mette in bocca a Bartleboom, il professore che, in Oceano Mare, cerca di stabilire dove finisce il mare. Si può dire che Kundera le abbia fatte proprie anni prima, queste parole, in un tempo in cui non erano ancora state scritte. Il tempo dell’attesa non di qualcuno, ma di qualcosa. È alla Repubblica Ceca che rimandano tutti i suoi libri, e la parola nostalgia viene riproposta più volte non a caso: nostos, in greco, significa “ritorno a casa”, mentre algos rimanda al dolore. C’è un’altra parola che fa capolino in alcuni scritti di Kundera, e che dà il titolo a un altro suo romanzo: identità. Il tempo dell’attesa di qualcuno o di qualcosa da cui siamo lontani ci interroga sulla nostra identità con un’intensità che difficilmente si propone in altre occasioni. Come sono cambiato? La persona – o la cosa – che sto aspettando mi troverà uguale? E lui o lei saranno gli stessi oppure la loro identità è mutata? Mentre scorre, infatti, il tempo dell’attesa diventa anche tempo del cambiamento. «Dai, che cos’è che ti rende triste in questo momento?», chiede ne L’identità una donna al suo amante. «Ho immaginato che tu eri un’altra» gli risponde questo e, quando lei chiede «In che senso?», lui esplicita così questa sensazione: «Che eri diversa da come ti immagino io. Che mi ero ingannato sulla tua identità».Quarant’anni. Un tempo in cui ogni essere umano si rende conto che un cambiamento c’è stato, nel suo corpo e nella sua mente, in cui tocca in maniera tangibile la sensazione di finitezza che caratterizza ciascuno di noi. La morte si può attendere? Ad una certa età la si aspetta con timore, con la riverenza che si riserva a un ospite sgradito di cui però si ha rispetto. A differenza della nostalgia, questa è l’attesa di un avvenimento certo nella vita di ciascuno. Un’attesa che, in questo caso, ci spiega ancora Kundera, ci obbliga a chiederci chi siamo stati e ci stuzzica un pensiero: c’è qualcosa che ci ha reso unici, qualcosa della nostra esistenza che lascerà un segno? «Senza fede nell’idea che il nostro volto esprime il nostro io, senza questa illusione fondamentale, originaria, non potremmo vivere o almeno prendere la vita seriamente», scrive Kundera ne L’immortalità. «E non basta soltanto identificarci con noi stessi, è necessario identificarci appassionatamente, per la vita e per la morte. Perché solo così possiamo considerarci non come una delle varianti del prototipo uomo ma come esseri che posseggono una loro essenza inconfondibile». Un’attesa che, in questo caso, combacia con la parola aspettativa e forse anche con la parola illusione. Una “illusione fondamentale” però, su cui si fonda la nostra stessa esistenza.