È toccato all’attesa cambiare di segno. In un tempo tutto sommato breve. C’è, infatti, a pensarci bene, un’attesa che seduce e un’attesa che atterrisce. La prima proietta il presente nel futuro e spinge verso quel che verrà come il luogo e il tempo in cui si realizzerà finalmente quello che ci aspettiamo. Dove porti la seconda non è difficile comprenderlo e sentirlo. Basta ascoltarsi, oggi. Quel che ci attendiamo, quel che ognuno di noi si aspetta, ha il volto dell’imprevedibile e comunque di tutto quanto può essere classificato come peggiore del presente. L’attesa assume un volto paradossale: ci attendiamo qualcosa che non vorremmo accadesse e che, comunque ci terrorizza perché sappiamo che accadrà. Per certi aspetti, quindi, viviamo il calco dell’attesa, il suo negativo, l’altra sua faccia, quella oscura. Se ci chiediamo come stiamo in questo gioco del rovescio, allora ci distinguiamo in quelli che vivono di nostalgia del tempo in cui domani sarà meglio di oggi e noi siamo tra quelli che miglioreranno il mondo; in quelli che stanno un piede di là e uno di qua, e sono spaccati in due tra come avrebbe potuto essere e come effettivamente è; e in quelli che non conoscono altro tempo che quello attuale in cui è certezza silente che domani sarà peggiore di oggi, ma quel peggio è tanto più angosciante perché è imprevedibile e senza volto. Si sa solo che ci sarà ma non sappiamo cosa, come e quando. Non riusciamo, tra l’altro, non solo a rispondere, ci mancherebbe, ma neppure a chiederci perché. A stare meglio di tutti è, forse, proprio chi non sa di non sapere perché non vede di non vedere. Convinto, come il palo della banda dell’ortica che scegliamo come poesia di questo numero agostano, di sapere come si deve fare per godersela fino in fondo, fin che ce n’è, fino alla fine.