Storia della follia

Autore

Maria Inglese
Medico psichiatra, lavora presso l'azienda usl di Parma; è stata responsabile per 8 anni dell'UOS Salute mentale e Tossicodipendenza negli II.PP. di Parma; si occupa di formazione, supervisione a gruppi di lavoro; è mediatrice penale secondo il paradigma della Giustizia Riparativa e mediatrice etnoclinica. Tra i suoi ambiti di interesse la psichiatria comunitaria, la marginalità, la clinica nei luoghi sensibili. Coordina le attività riabilitative di tipo espressivo rivolte ai pazienti del DAISM-DP di Parma. Con l'Università di Parma organizza da 10 anni la rassegna Dolore in bellezza, insieme alla professoressa Vincenza Pellegrino, che mette insieme saperi e linguaggi differenti per 'dare voce' alla sofferenza, per condividere il dolore e trasformarlo in materiale comunicabile.

«Presenza che non ha significato, e che pure è una rivelazione»

Pier Paolo Pasolini, Teorema

Il titolo di questa riflessione riprende il testo contenuto nell’Appendice che chiude l’opera monumentale sulla storia della follia di Michel Foucault. Sembra oggi fuori tempo, in-attuale, citare e ristudiare il libro che il filosofo dedica alla nascita della follia, o meglio sarebbe dire alla sua sparizione per confluire (e morire) nella definizione di ‘malattia mentale’. Eppure proprio oggi, nella crisi profonda della salute mentale, della psichiatria italiana, della ‘povera psichiatria’ alla quale ci ha abituati Benedetto Saraceno, riprendere in mano questo testo classico apre ad una riflessione che parla al nostro tempo, alla nostra crisi professionale, alla nostra in-attualità. Essere in-attuali può essere paradossalmente la posizione più contemporanea possibile.

Che cosa significa essere contemporanei?, si domanda Giorgio Agamben nel suo testo che riprende una lezione presso la facoltà di Arti e Design dello IUAV di Venezia. E risponde: «Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò in questo senso inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e di afferrare il suo tempo».

Quindi, celebro l’inattualità, l’anacronismo, lo scarto e cerco di afferrare, grazie alle letture passate, il nostro tempo presente.

Riprendo in mano il testo e mi soffermo di nuovo sull’inciampo che rappresentano le due Prefazioni (Préfaces) firmate da Foucault in occasione della prima (1960) e della seconda edizione (1972) del suo libro. L’una dialoga con l’altra. L’una risponde al non detto dell’altra. Foucault sembra tessere un dialogo (oltre che con sé stesso) con ogni lettore in queste due prefazioni; si rivolge direttamente a lui (a noi-lettori) quando, ad esempio, nella seconda prefazione apostrofa il narcisismo dell’autore (lo chiama monarchia, tirannide, «primo simulacro di se stesso che è una prefazione») come il limite assoluto alla rivelazione che ogni testo dovrebbe rappresentare nell’esperienza della lettura. Impegnando, al contrario, il lettore in un gioco di rispecchiamenti continui e depistanti.

Rivelazione. Esperienza.

Si tratta di due parole che determinano la profonda ricerca di Foucault sulla follia. L’autore le utilizza con decisa sottolineatura nell’intera opera; nella prima delle sue prefazioni troviamo un riferimento a tale scelta: «non si tratta affatto di una storia della conoscenza ma dei movimenti rudimentali di un’esperienza. Storia non della psichiatria ma della follia stessa, nella sua vivacità, prima di ogni cattura da parte del sapere».

Dalle parole inscritte nelle due Préfaces intendo partire, perché in questo viaggio nella follia occorre avere delle coordinate e, per la navigazione in corso, la lettura delle prefazioni è imprescindibile.

Mi accompagna un degno maestro. La riedizione della Storia della follia del 2011, edizioni BUR, è infatti ampliata e arricchita, dalle due prefazioni e da una introduzione ricca e analitica di Mario Galzigna, filosofo e amico personale di Foucault. C’è molto affetto nelle parole che Galzigna dedica al filosofo e alla sua Storia. Non a caso la sua introduzione si apre con una delle citazioni che Foucault stesso utilizza nella sua prima prefazione: «Le persone che amo, le utilizzo. Il solo segno di riconoscimento che si possa testimoniare a un pensiero […] è precisamente di utilizzarlo, di deformarlo, di farlo stridere, gridare. Allora, dicano pure i commentatori se si è o non si è fedeli, ciò non ha alcun interesse».

L’introduzione restituisce il senso della ricerca continua sia del filosofo francese che di Galzigna stesso. L’opera di Foucault celebra la ricerca continua, la passione per le fonti dirette, l’indagine a partire dalle parole dei commentatori dell’epoca, dalle raccolte originali. Ricerca che, a partire dall’età moderna, si interrompe e sembra non interrogare più il mistero della follia. Sappiamo tutto della follia? Presumiamo di sì e ne perdiamo l’annuncio, la rivelazione.

Mi lascio condurre ancora da Galzigna. L’opera sprofonda lì dove si manifesta follia. Si tratta delle ben note ultime righe del testo di Foucault (pag. 737, Storia della follia, Rizzoli): «Non c’è follia se non come istante supremo dell’opera, e quest’ultima la respinge indefinitamente ai suoi confini; dove c’è opera non c’è follia; e tuttavia la follia è contemporanea dell’opera, poiché inaugura il tempo della sua verità. L’istante in cui nascono e si compiono insieme l’opera e la follia è l’inizio del tempo in cui il mondo si trova citato in giudizio da quest’opera e responsabile di ciò che è davanti a essa». La follia rappresenta la rottura dell’opera, la sua interruzione, è quella «regione scomoda» dove emerge il problema dei limiti e della identità di una cultura. Rottura, interruzione e nello stesso tempo può rappresentare quel momento di possibile generatività, di creazione di un senso nuovo (o perduto), di riconnessione con il senso di continuità di sé attraversato dall’apparente non sense della follia. È proprio in quella falda, feritoia, crepa che il soggetto (insano, folle) percepisce e spesso agisce contro il mondo che lo ha allontanato, separato, internato, offeso. Il soggetto ritrova allora la sua voce, potremmo dire il grido (pensando ad Artaud). È nella esposizione della propria vulnerabilità ferita e offesa dal mondo che il soggetto può riconnettersi con l’energia progettuale sotto-stante (sotto-messa) e che lo può rendere di nuovo il protagonista della propria esistenza: «Proprio lì può emergere – scrive Galzigna – un’intima ed enigmatica solidarietà tra distruzione e costruzione, tra perdita e arricchimento, tra malattia e creatività».

Il dialogo al quale Foucault ci introduce mettendolo in mostra nelle sue Préfaces (ce le mette en face) è appunto quello tra la distruttività-distruzione e la costruzione, tra malattia e creatività, tra ragione e non-ragione, tra passività e attività. Come liricamente scrive Foucault nella prima prefazione: «Al centro di questo tentativo di valorizzare, nei suoi diritti e nel suo divenire, l’esperienza classica della follia, troveremo dunque un aspetto immutabile: la semplice separazione del giorno e delle tenebre, dell’ombra e della luce, del sogno e della veglia, della verità del sole e delle potenze di mezzanotte».

Il dialogo, appunto, tra le esperienze dell’essere costituiti e dell’essere costituenti, dell’essere soggetti determinati, inglobati nel reale e nel suo linguaggio performativo piuttosto che essere soggetti capaci di produrre, determinare, orientare la realtà che si contribuisce a trasformare. Tra essere soggetto determinato e divenire soggetto determinante. Tra libertà e necessità. Foucault introduce tra queste sponde separate l’elemento anarchico della follia, capace di incontrare entrambe, ragione e non ragione, ombra e luce. L’incontro avviene lì dove le due sponde erano in dialogo, prima di separarsi. Esperienza limite che tenta di far incontrare in un territorio originario, inaugurale, costitutivo «l’uomo di follia e l’uomo di ragione», i quali «separandosi, non sono ancora separati». Un luogo quindi, ed un tempo. Un prima. Prima della modernità, prima della scienza che separa, prima della punizione che vuole riabilitare o addirittura curare. Prima: parola che risuona come una rivelazione. Cosa caratterizza in fondo la rivelazione? Nella rivelazione si manifestano fatti riservati o nascosti, difficilmente attingibili e disponibili, recita il dizionario. E la rivelazione è l’azione e l’atto del rivelare, il fatto di rivelarsi o di venire rivelato. Agire ed essere agito, attivo e passivo, determinare ed essere determinati.

Quali parole possono dare spessore all’esperienza della rivelazione? Solo la poesia, la letteratura. E Foucault lo dimostra. La Storia è opera liricamente ispirata, le due prefazioni sono attraversate e costruite con parole indefinite, non definitive, allusive, enigmatiche, sospese, insature, poetiche. La Storia ci lascia talvolta brancolare nel buio. Ma, in fondo, quale lampada può guidare i passi di un curioso esploratore della lingua e dell’esperienza della follia se non quella tremante di una luce di candela, esposta al vento e al freddo, luce che illumina solo davanti ai propri passi, lasciando nell’ombra le origini e il passato. Ma basta una semplice piroetta per tornare a ripercorrere i ‘passi passati’ e lasciare nell’ignoto il futuro. Qui o là? Dipende dal giro di valzer del momento storico che la piccola vita nuda di ciascuno inaugura, rivela, con il proprio grido, la propria voce e parola. Non a caso la prima prefazione termina con la citazione di Char (anche se non citato nel testo da Foucault): «Compagni patetici che a pena sussurrate, andate con la lampada spenta e restituite i gioielli. Un nuovo mistero canta nelle vostre ossa. Sviluppate la vostra legittima stranezza».

Nella prima intervista rilasciata da Foucault (siamo subito dopo la pubblicazione della Storia) nel 1961, alla domanda quali sono le sue ‘influenze’ risponde «Soprattutto opere letterarie… una certa forma di presenza della follia nella letteratura». Il filosofo ci guida e nello stesso tempo ci sta depistando. Allude. Come fa l’opera poetica e la grande letteratura. La poesia è «grande protesta lirica», ha la funzione di «manifestazione e rivelazione». Nella poesia, solo nella poesia, si trova quel dialogo tra l’uomo della ragione e l’uomo della follia ‘sorpresi nel momento di separarsi’. In quella ‘regione scomoda’ avviene miracolosamente l’incontro tra il linguaggio della ragione e della non ragione. Solo nella parola lirica è possibile rimanere sospesi (e sorpresi) tra l’essere e il non essere, tra la storia e l’assenza di storia, tra il pieno e il vuoto, tra il dicibile e l’indicibile, tra il grido e il silenzio. Nella parola lirica, che è di Foucault e dei testi citati (non rivelando sempre la fonte delle citazioni, anche qui in bilico tra detto e non detto, esperienza eterotopica), è possibile «cogliere la follia – e il suo dialogo con la ragione – prima che essa si costituisca come malattia mentale; prima, dunque, dell’internamento e della sua legittimazione psicopatologica; prima che il linguaggio della follia venga ridotto al silenzio (il “lungo silenzio classico”) e venga destinato a un inesorabile oblio», commenta Galzigna splendidamente. È nel lungo silenzio moderno, potremmo dire oggi, che la voce, il balbettio, il grido inarticolato e selvaggio (pensiamo ancora ad Artaud) dei senza voce, dei senza opera, dei senza storia che si colloca la rivolta, la ribellione, la trasgressione contemporanea, il rifiuto al congelamento sterile dei saperi che definiscono, descrivono, categorizzano, giudicano, ancora internano.

Le voci che stanno sotto la storia, sotto la scienza, che vivono nel fango (ancora Artuad, citato da Galzigna: «Le parole sono fango, che viene rischiarato non sul versante dell’essere, ma sul versante della sua agonia»). Da questo terreno, territorio, linguistico e simbolico nasce la s-ragione, l’esperienza della s-ragione. L’opera tace se parla follia, ma nel momento in cui follia si silenzia, anche se per poco, riesce a tradurre il linguaggio del silenzio, del mistero, del sogno, del desiderio, dell’Oriente, del tragico, per riprendere le esperienze limite citate nella prima Prefazione. Foucault allude in questo passaggio ad una storia dei limiti che l’Occidente presume sapere, «di quei gesti oscuri, necessariamente dimenticati non appena compiuti, coi quali una cultura respinge qualcosa che sarà per lei l’esteriore […] questo vuoto scavato, questo spazio bianco, per mezzo del quale si isola, la contraddistinguono quanto i suoi valori».

Torna infine quel monito che è l’inizio e la fine di questo libro ancora oggi dialogante con l’inattualità e il contemporaneo: «Che cos’è dunque la follia, nella sua forma più generale, ma più concreta, per colui che rifiuta di primo acchito ogni cattura da parte del sapere? Nient’altro, senza dubbio, che l’assenza d’opera» (Préface, 1960).

O, se si preferisce, come scrive Galzigna alla fine della sua splendida Introduzione (Introduction) occorre citare un Foucault più tardivo, da La vita degli uomini infami, libro mai concluso, libro intenzione, libro frammento, opera di per sé inattuale: «Più che qualunque altra forma di linguaggio, la letteratura rimane il discorso della ‘infamia’: ad essa spetta dire ciò che è più indicibile, peggiore, più segreto, più intollerabile, spudorato».

Naturalmente questo articolo è dedicato agli amici.

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