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Mente e follia: la lezione di Alda Merini

Autore

Antonino Pennisi
Filosofo e Linguista. Dal 2012 al 2018 ha diretto il Dipartimento di Scienze Cognitive, Psicologiche, Pedagogiche e degli Studi Culturali dell'Università di Messina, presso cui è titolare della cattedra di filosofia del linguaggio. I suoi interessi riguardano prevalentemente la psicopatologia del linguaggio e, più in generale, la relazione tra linguaggio, evoluzione e cognizione umana. Il suo ultimo libro edito da Il Mulino, Bologna nel 2021 è Che ne sarà dei corpi?

Cos’è la follia? 

Di norma c’è una risposta clinica che la definisce e che viene data in pasto ad un’implacabile domanda di eziologia sociale. Così la follia è stata considerata malattia mentale, disordine cerebrale, caos comportamentale che esige sempre una “normalizzazione”. Clinica, famiglia e società circoscrivono le aree di emarginazione istituzionale della follia, magistralmente descritteci da Michel Foucault già negli anni Sessanta. Localizzazioni cerebrali, spazi manicomiali, connivenze familiari. Dall’antica lobotomia, all’elettroshock, ai prolungati silenzi di amici e parenti contro un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), tutta l’inaudita violenza muta che spinge a murare il folle assieme alla sua anarchica follia dimenticandolo per sempre.

Non è stato necessario aspettare la legge Basaglia del 1978 per contrapporre a quell’idea di follia un’altra totalmente diversa: quella cosa che chiamiamo per antica convenzione “follia” secondo Ludwig Binswanger non è affatto “anarchia” ma Daseinsform “modalità di esistenza” e, per Wittgenstein, Lebensform “forma di vita”. Ed era il cruccio del più grande filosofo contemporaneo:  “se io diventassi pazzo la cosa di cui avrei più paura sarebbe la vostra attitudine al senso comune. Che voi consideraste come una questione scontata che io soffrissi di fissazioni” (Wittgenstein in Drury, 1996: 67). Da questo punto di vista la follia non è che un’estensione della normalità: tutti crediamo in quello che diciamo e facciamo: nessuno, neanche il folle, è privo di qualsiasi incarnamento logico. La procedura della mente è sempre quella di giustificare la propria modalità di esistenza: può differire il contenuto ma non la forma del ragionamento. 

Tutto si sposta, a questo punto, verso la cosidetta “perdita dell’evidenza naturale”, di cui ho già parlato in Passione & Linguaggi (12/2021) e su cui non insisterò qui. La perdita dell’evidenza naturale è tuttavia collegata ad una terza importante idea di follia maturata nella psicopatologia che ha accomunato filosofi e psichiatri di varie epoche e scuole. È stata per la prima volta avanzata alla fine dell’Ottocento dallo psichiatra E. Tanzi e consiste nell’identificare la follia come un «eccesso intrinseco di funzione» (1889:33). Per Bergson: “quando un folle sragiona il suo ragionamento può essere in regola con la più stretta logica: voi direte, parlando con questo o quel malato affetto da delirio di persecuzione, che egli pecca per eccesso di logica” (L’énergie spirituelle, 1916:851). Giustamente Kraepelin definiva la paranoia “un sistema delirante duraturo e incrollabile, che si stabilisce assieme ad una totale conservazione della chiarezza e dell’ordine nel pensiero” (1899, III). E così per Minkowski la schizofrenia è una forma di “razionalismo morboso”. E, infine, per lo stesso Binswanger lo psicotico è come “un computer con un unico programma” (1965:58).  Insomma il folle è tale non perché ragiona poco ma perché ragiona troppo, “tematizza tutto”, secondo una formulazione cara a Heidegger. Si chiede troppe cose, non dà nulla per scontato, la sua mente manca di quel senso dell’ovvio, dell’evidente, che erroneamente sembra a chiunque del tutto scontato.

In ognuna di queste tre idee di follia c’è certamente qualcosa di vero. Ma nessuna affronta un tema oggi centrale nella filosofia della mente, come pure nelle neuroscienze contemporanee: la mente non è fatta di sole procedure di calcolo, la ricerca della ragione, e i suoi percorsi, sono inscindibilmente connessi alle emozioni, ai desideri, alla ricerca della felicità, all’ansia di partecipazione o di solitudine. La ragione non è solo il vero, ma il vero incarnato in un corpo che sente. Per cercare di chiarire questa idea non voglio, tuttavia, ricorrere qui a spiegazioni sui processi di incarnamento fornite da scienze di per sé non incarnate come, appunto, la filosofia della mente o le neuroscienze. Preferisco lasciare la parola a chi con la follia ha convissuto tutta la vita, accarazzandola e domandola con i giochi e i tormenti dell’anima. Parlo della grande poetessa Alda Merini. Alda ha sempre tentato di spiegare al mondo che la follia non è che la credenza in un altro possibile ordine delle cose, una disposizione e un abito fenomenologico, una piegatura particolare del sentimento: “l’uomo è socialmente (…) un cattivo soggetto. E quando trova (…) qualcuno che parla troppo piano, qualcuno che piange, gli butta addosso le proprie colpe, e, così, nascono i pazzi. Perché la pazzia, amici miei, non esiste. Esiste soltanto nei riflessi onirici del sonno e in quel terrore che abbiamo tutti, inveterato, di perdere la nostra ragione” (1997:119).

Il sonno della ragione generatore di mostri è sempre stato un costante incubo della Merini. “Disposta naturalmente al razionalismo”– come si definisce ne L’altra verità (p.36) – si è sempre mostrata atterrita dall’elemento paranoideo che contraddistingue non solo i paranoici ma anche i sedicenti “normali” che non mostrano alcun senso critico. L’uomo che non si interroga mai e non ha mai dubbi – sia esso il persecuté delirante che il fondamentalista religioso capace di farsi saltare in aria assieme ai cento bambini di un asilo – è distante mille miglia dal cosiddetto folle. Il folle è “un sapiente della grandezza, da non confondere col paranoico che vede grandezza ovunque, anche dove alberga la più totale ignoranza” (Merini in Donatella Pagliari, Creatività e follia). La dolce follia può essere un eccesso o un difetto di misura logica o emotiva, ma non può mai essere paranoia, cioè certezza indiscussa di verità, di realtà:

“il dottor G. sostiene che io per lungo periodo persi il contatto con la realtà. Ma (…) chi può stabilire che cos’è la realtà? Perché noi chiamiamo realtà ciò che vediamo, sentiamo, odoriamo. Non siamo dunque noi, la sola autentica realtà possibile? E da noi che partono le cose” (1997:119).

Non anarchia, né paranoia, né cecità di fedi, quindi, è la sua follia: ma neppure “arte”. Uno dei più accorati appelli di Alda Merini è sempre stato rivolto proprio contro la mistificante identificazione tra arte e follia: “si è fatta troppa confusione tra la mia poesia e la mia vita, anzi tra la poesia e la malattia. La poesia, semmai, è la liberazione dal male, come la preghiera lo è dal peccato”. Parole accorate molto simili a quelle di un altro discusso artista – Antoine Artaud – che considerò la follia una Lebensform antagonista del pensiero, del linguaggio e della misura poetica. Analogamente per Alda Merini “non si può usare la pazzia con uno scopo. Il delirio dà alla luce figure, visioni, realtà sommerse. La follia è un capitale enorme, estremamente prolifico, però lo può amministrare soltanto un poeta” (Merini, 1995:143). L’immagine del poeta-folle è solo una caricatura che secondo la Merini, il “genio non sopporta”. L’attingere ad una modalità di esistenza diversa per tradurla in poesia è, infatti: “molto faticoso e terribilmente doloroso” (ib.): 

il piede della follia

non ha nulla di divino

ma la mente ci porta

lungo le ascese bianche

dove fiotta la neve

cresce il sambuco,

geme l’agnello;

abbiamo attraversato ponti

esaminato misure,

e quando l’ombra cupa

del delirio incombeva

sulla nuca profonda

noi chinavamo il capo

come sotto una legge

(La Terra Santa,

1984: 83)

Il delirio diventa così la misura della coazione cognitiva che separa la poesia dalla realtà: “non si può portare all’esterno una figura così carismatica, bella, di sogno, com’è il delirio, perché verrebbe distrutto, inghiottito dal quotidiano. La follia va invece allevata in un ambiente adatto, e allora può dare alla luce cose straordinarie. Diventa dolore, ma anche poesia. In dodici anni di manicomio ho imparato tanto” (1995:148).

Chi ha vissuto l’istituzione manicomiale non ha più voglia o tempo per giocare al mito romantico del genio folle o del poeta pazzo: lugubri favole prodotte dal narcisismo dei critici letterari:

“molti hanno pensato che la mia poesia sia la mia follia. Pochi hanno capito, invece, che la mia poesia è nata a prescindere da tutto e da tutti. Avrei potuto fare la matta o la ragioniera e la mia poesia sarebbe comunque uscita. Essa è una forza che nasce in me, è come una gravidanza che deve andare a termine” (Merini, 1999:11).

La follia non genera da sé poesia, ma può diventare l’ostetrica del suo doloroso parto. È più che mai una Daseinsform: una delle cose più sacre che esistano sulla terra. “È un percorso di dolore purificatore, una sofferenza come quintessenza della logica” (id.:146). Il manicomio – che delle diversità mentali delle forme di vita è solo gendarme e prigione – è invece l’anti-poesia per eccellenza:

e se tu mi avessi vista

dopo un ‘trattamento’

quando i capelli in testa 

sembravano serpi

serpi di pensieri e di dolori

se tu mi avessi vista piegata in due

dall’orribile dolore di essere donna

ti saresti chiesto:

‘ma questa è una poetessa’? (ib.).

Eppure La Terra Santa (1984), una tra le opere più intense e straordinariamente poetiche di Alda Merini, il capolavoro premiato nel 1993 con il premio “Montale”, parla proprio del manicomio: “parola assai più grande delle oscure voragini del sogno” (p.71) cassa di risonanza in cui “il delirio diventa eco” e “l’anonimità misura” (p. 72). In quel luogo, nel “Sinai maledetto” in cui il medico notturno ti regala “una flebo che sommuova il tuo sangue irruente di poeta” e

“poi se ne va sicuro, devastato

dalla sua incredibile follia

il dottore di guardia, e tu le sbarre

guardi nel sonno come allucinato

e ti canti le nenie del martirio” (p.78).

Il degrado manicomiale è colto ovunque nella sua oscena impudicizia, in quella triste toeletta del mattino in cui “corpi delusi, carni deludenti e attorno al lavabo il nero puzzo delle cose infami” (p.100) attendono che l’“anima circoncisa” (p.101) fugga dall’involucro vergognoso del corpo librandosi in alto:

laggiù (…) 

dove le membra intorpidite

si avvoltolavano nei lini

come in un sudario semita,

laggiù dove le ombre del trapasso 

ti lambivano i piedi nudi 

usciti di sotto le lenzuola,

e le fascette torride 

ti solcavano i polsi e anche le mani,

e odoravi di feci,

laggiù, nel manicomio (…)

Iddio ti compariva 

e il tuo corpo andava in briciole,

delle briciole bionde e odorose

che scendevano a devastare

sciami di rondini improvvise 

(La Terra Santa, 1984: 91)

Dal centro dell’inferno sgorga tuttavia, dopo quasi venti anni di silenzio, il canto universalizzato e libero, della prigionìa: prigionìa del corpo, dell’anima, della poesia. Un canto dolce e violento, ma mai rancoroso. Amaro, triste, profondo: ora gridato ed ora sussurrato da un raffinatissimo linguaggio senza fonti e senza eredi. La quintessenza della forma di vita della grande poetessa Alda Merini:

Ogni mattina il mio stelo vorrebbe levarsi nel vento

soffiato ebrietudine di vita,

ma qualcosa lo tiene a terra,

una lunga pesante catena d’angoscia

che non si dissolve.

Allora mi alzo dal letto

e cerco un riquadro di vento

e trovo uno scacco di sole

entro il quale poggio i piedi nudi.

Di questa grazia segreta

dopo non avrò memoria

perché anche la malattia ha un senso

una dismisura, un passo,

anche la malattia è matrice di vita. (p.95)

Alda Merini è morta il 1° Novembre del 2009, all’età di 70 anni. Uno dei ricordi più belli della mia vita è vederla nella toga nera e il tocco dell’Università di Messina quando, Il 17 ottobre 2007, la Facoltà di Scienze della Formazione, che allora presiedevo, gli conferì la laurea honoris causa in “Teorie della comunicazione e dei linguaggi” tenendo una indimenticabile lectio magistralis sui meandri tortuosi del rapporto tra mente e follia. 

Antonino Pennisi

Abbreviazioni bibliografiche non sciolte nel testo:

L. Binswanger, Tre casi di esistenza mancata, Il Saggiatore, 1956

M. Drury, The danger of words, Thoemmes, 1996

E. Kraepelin, Trattato di Psichiatria, Tamburini, 1889

E. Tanzi, I neologismi degli alienati in rapporto col delirio cronico, R. Emilia, Calderini, 1889

Tutte le citazioni di Alda Merini, con relativa bibliografia, si trovano inA. Pennisi, Laudatio della Dottoranda Alda Merini, 17/10/2007, Messina University Press

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