È da tanto tempo che rifletto sul fatto che sembriamo intrappolati nel tempo dell’istante. Concentrati, come siamo, a vivere “l’adesso”, tutto ciò che ci si allontana, indietro e avanti, rischia di sbiadire o, peggio, sembra non esistere. Questo ci pone davanti ad altre riflessioni: che rapporto possiamo avere col passato e, quindi, con la Memoria e con la nostra Storia? E quale approccio abbiamo con il futuro? Ecco, se rimaniamo intrappolati nell’istante che viviamo, non c’è spazio per il futuro. È forse questa una possibile chiave per spiegare (in parte) il calo demografico e il disinteresse per la questione ambientale. I figli sono la nostra naturale proiezione nel futuro così come i nostri genitori, nonni e bisnonni sono il nostro legame con il passato. Se non vediamo il futuro, non ci sarà spazio per i figli. se non ci sarà spazio per i figli non ci sarà interesse per il futuro. Un perfetto circolo vizioso.
Avevo già scritto su queste pagine come leggendo “Il tempo e l’acqua”, di Andri Snær Magnason, mi sia cimentato in un calcolo che l’autore suggerisce: quando è nata la mia piccola Carlotta, mio nonno (suo bis-nonno) aveva 95 anni, un’età che Carlotta raggiungerà nel 2112. Se anche lei dovesse avere un pronipote, alla stessa età di suo bis-nonno (mio nonno), questi spegnerebbe 95 candeline nel 2207. Dal 1912, data di nascita di mio nonno, al 2207 ci sono 285 anni: anno più anno meno, è questo l’arco temporale di Carlotta che sarà così riuscita a conoscere delle persone che sono in grado di coprirlo tutto. Se perdiamo il legame con il futuro, inoltre, rischiamo di far diventare del tutto normale il fatto che non ci interessi per nulla la bomba ambientale. Speriamo solo che non scoppi proprio mentre ci siamo seduti sopra perché, in fondo, lo scoppio dovrebbe riguardare un tempo (futuro) che non ci riguarda; interessa un tempo in cui non ci sarà nessuna persona che ci interessa che potrà puntarci il dito contro, accusandoci di aver ignorato il ticchettio.
Potrebbe essere (anche) per questo che la questione ecologica, che resta oggi la prima emergenza, non susciti in noi un moto di indignazione collettiva propedeutica alle conseguenti azioni riparative.
Nel suo ultimo libro “Il gusto di cambiare” (scritto insieme a Carlo Petrini e Stefano Arduini) l’economista Gaël Giraud entra nel merito di questa follia che sembra non esaurirsi mai. In particolare, in un’intervista al Corriere della Sera a firma Stefano Lorenzetto, ricorda quanto le banche siano ancora troppo legate a petrolio, gas e carbone. Se il mondo rinunciasse a queste risorse le prime 11 banche mondiali fallirebbero, avendo investito nell’energia fossile il 95% dei loro capitali. Come fare, quindi, a liberarsi di questa zavorra e a uscirne indenni? Per Giraud la soluzione sarebbe quella di ripulire le banche di questi titoli e favorire la transizione ecologica grazie a un intervento della BCE. Manca, tuttavia, la volontà politica. Ovviamente. In un mondo dominato dalla grande finanza, dai grandi capitali e da logiche economiciste, aggravate da una sempre più diffusa e radicata incapacità di immaginare futuro, sembra inevitabile, e quindi accettato, restare in balia degli eventi, fingendo di non vedere i continui allarmi che la natura ci lancia o bollandoli come fake news, gridando al complotto. La tropicalizzazione del clima, ci dicono gli scienziati, renderà familiari catastrofi come quella avvenuta recentemente in Emilia-Romagna. Entro il 2050, il Monte Bianco in estate sarà verde. Entro 7 anni, nel mondo, due persone su cinque non avranno acqua potabile.
Serve quindi un grande sforzo culturale per rimettere al centro questa urgenza, coinvolgendo tutti. «Bisogna evitare il rischio di entrare in una competizione tra una borghesia illuminata che fa ecologia avanzata, da un lato, e i poveri che faticano ad arrivare a fine mese ma che sognano di entrare nel regime dei consumi, dall’altro. Decisiva sarà, ancora una volta, la coscientizzazione delle persone e, dunque, la capacità di formare la gente comune, investendo sulla coscienza collettiva e sul territorio. Gli ultimi e i fragili devono tornare a essere le pietre angolari di un nuovo modello di sviluppo e, per questo, occorre immaginare come riprendere un percorso culturale rilanciando le scuole popolari e le 150 ore sui temi dell’ecologia integrale e della giustizia sociale» spiega don Virginio Colmegna.Mio nonno ha amato una pronipote che, a sua volta, vorrà bene a qualcuno che sarà ancora vivo nel 2207. Il nostro tempo è il tempo delle persone che amiamo, conosciamo e che ci influenzano. Se ci pensiamo, è il tempo su cui possiamo avere un’influenza diretta. Una cosa bellissima e una grande responsabilità. Ecco perché non possiamo fallire ed ecco perché dovremmo proiettarci, tutti, un po’ più in là nel tempo, liberandoci dal torpore del presentissimo che castra la nostra libertà, che impedisce l’azione e, dunque, il cambiamento.