“Ma io non ci sto più/
e i pazzi siete voi/
Tutti pensarono dietro ai cappelli/
lo sposo è impazzito oppure ha bevuto/
ma la sposa aspetta un figlio e lui lo sa/
non è così che se ne andrà”
F. De Gregori, Alice, 1975
Quando proviamo ad interrogarci e sviluppare un pensiero, come facciamo su questo numero di Passion&Linguaggi, sul tema della follia, ci accade per la verità una cosa molto particolare. Più, infatti, proviamo ad addentrarci nel concetto, più esso sembra sfuggire da un significato, quasi che le basi stesse di ciò che si prova di volta in volta ad intendere con quel termine si sgretolino.
Il fatto stesso che quando parliamo di follia ci balzino alla mente almeno due macro significati – quello della malattia e quello del genio – ci testimonia questo imbarazzo di definizione. Che cosa intendiamo, infatti, quando diciamo parole come folle, pazzo, matto, fuori di testa,…? Come possono questi sostantivi rappresentare plasticamente il punto più alto che l’ingegno umano possa raggiungere e contemporaneamente il baratro della disperazione che una patologia psichica può spalancare? Sembra proprio, e questa è l’idea di fondo che si vuole mettere a fuoco, che in realtà quando diciamo la follia non stiamo significando o intendendo nulla; che siamo davanti, cioè, ad un concetto piuttosto vuoto che estremamente plastico e duttile.
Per comprendere che cosa sia un concetto vuoto, richiamiamo quanto Platone scopriva addentrandosi nella riflessione che voleva mettere a fuoco il che cos’è di un’immagine. Il luogo in cui ciò avviene è la cosiddetta esposizione della teoria della linea che troviamo alla fine del IV libro della Repubblica (509d-511e). Cogliendo sul serio la sfida di voler definire che cosa sia un’immagine, si partirà con la constatazione di base che ciascuna immagine rappresenta un qualche cosa. Approfondendo tuttavia questo dato di fatto, provando a stringere sulla domanda che si chiede quale sia il contenuto di verità, l’essenza dell’immagine di per se stessa, slegata quindi dall’oggetto che vuole rappresentare, si finisce logicamente col concludere che l’essenza stessa dell’immagine è un vuoto rimando alla verità dell’oggetto rappresentato. L’immagine cioè, proprio in quanto immagine, è un qualcosa che sussiste nella sua verità piena come rimando al contenuto che rappresenta e non ha un significato fisso né costante slegato dal contento che va via via rappresentando. In questo senso possiamo intendere il concetto di immagine come un cosiddetto concetto vuoto, per questa sua dipendenza da un significato altro.
Per la definizione di follia è in gioco la stessa dinamica, ma elevata al quadrato. Essa assume infatti i confini molli che il contesto che la nomina le vuoi affidare. Matto, folle, pazzo, è detto colui che è fuori dagli schemi, chi non si adegua al costume e al sentire sociale, chi non si adatta al pensiero corrente, chi non sta al mondo seguendo una regola comune, condivisa, di maggioranza o comunque che aggrega e nella quale si riconoscono una discreta quantità di persone. Il folle è un puro dis-adattato alla cornice di riferimento. E certamente a significare questi termini ci sono tanto coloro che da quella cifra di diversità e originalità sono portati ad un’estrema, vertiginosa creatività e lucidità quanto coloro che accusano delle pesantissime patologie – e che quindi sono troppo fuori per poter vivere nello stesso perimetro regolato dal buon senso e dalla normalità dei più.
Ma il fatto è che quello stesso schema, quella cornice, non è a sua volta ben definita ma essenzialmente mutevole, contingente e immancabilmente transeunte. E così, ogni epoca ha i suoi folli, o meglio: i folli che definisce tali. Per comprendere quanto i costumi cambiano rispetto alle coordinate geografiche e alle coordinate temporali, sarebbe sufficiente studiare chi, in ogni contesto, viene preso per pazzo e d’altronde che cosa scambiato per normalità. Il linguaggio stesso che normalmente utilizziamo per dire la follia e la normalità ci parlano di tutto ciò: “folle” non vuol dire niente almeno tanto quanto non ha un significato preciso “normale”.
Una considerazione conclusiva che non può mancare a questa riflessione ci porta ad accorgerci che, poggiando sull’inconsistenza di definizione e di concetto del binario follia/normalità, si consuma quotidiana e concreta, tuttavia, un’enorme differenza sociale, di diritto, di salute, di possibilità. Dalla caccia alle streghe alla legge Basaglia, dalla deportazione nei campi di concentramento ai senzatetto che popolano le nostre città, il modo in cui noi, senza che vi siano le basi logiche, abbiamo definito e definiamo folli altre persone come noi soltanto per essere fuori dalla nostra inconsistente cornice è una delle più grandi ingiustizie che si perpetuano immutate lungo i secoli della storia di sapiens. Se la presunzione di dirsi almeno a grandi linee normali consente di porre in atto una differenza così tangibile, lo stesso atteggiamento dovrebbe di necessità istituire la corrispettiva responsabilità di prendersi cura di quella crepa posta in essere senza fondamento.
Ci scopriamo così, ancora una volta, degli infanti planetari.
“I matti vanno contenti/sull’orlo della normalità,/come stelle cadenti/nel mare della tranquillità”F. De Gregori, I matti, 1987