Quel che finora mi ha fatto sof rire è d’avere rifiutato il Vuoto.
Il Vuoto che era già in me.
È suf iciente questo movimento di luna che mi fa chiamare quel che rifiuto
e rifiutare quel che ho chiamato.
A. Artaud, Nuove rivelazioni dell’essere (1937)
Dell’arte
Fare arte è ogni volta credere nell’invisibile e provare ad inseguirlo: creare è un “fare dal nulla”
per l’uomo di genio, un dar forma all’idea immateriale che arriva da lontano.
Prima di iniziare a costruire realmente l’opera, tutte le volte, mi piace sentire di custodirne in me
l’invisibile, l’idea.
Era Paul Klee a raccontare di rendere visibile l’invisibile e poi quando lo faceva creava
composizioni dove ogni elemento trovava con gli altri, intorno, il compimento armonico formale
nella manifestazione dell’interiorità dell’artista.
Della follia
Forse anche la follia è credere nell’invisibile: il non visibile per gli altri che per questo ti pensano
folle. Gli sguardi degli alienati di Géricault non guardano il mondo, il mondo lo hanno perduto;
l’artista non è un alienato invece: ha uno sguardo altro, limpido e poetico, profondamente vero.
Allora forse l’arte è follia, pura follia se è un gesto libero dell’invisibile che è in noi e che prende
forma. In prima istanza l’artista pare un folle perché crede in ciò che gli altri non vedono, segue
il suo pensiero invisibile che poi quando lo manifesta diventa sguardo puro sul mondo capace di
svelarne l’anima e i paradossi.
Delle paure invisibili
Quando ritorno a pensare ai miei lavori, a quelli costruiti e quelli non ancora realizzati
(invisibili) vedo come il mio gesto creativo sia un cercare sempre di dar forma ai miei vuoti e alle
mie fragilità: questi sono i miei pensieri invisibili. Lavoro nella natura e con la natura, dove le
mie costruzioni con i rami sono sempre presenze pesanti che alleggerisco sospendendole per
aria o svuotandole.
Quando ho costruito Solstizio (Arte Sella 2018) ho lavorato tracciando un cerchio vuoto con i
rami di castagno: ciò che cercavo non era la forma che andavo costruendo ma il vuoto che pian
piano si disegnava nell’aria.
Quando disegno invece, le mie composizioni sembrano sempre più vetri rotti, fenditure, crepe
che si incontrano creando forme riconoscibili.
Pesantezze ed insieme debolezze dell’esistenza plasmate, che diventano gesto poetico: ciò che mi
spaventa nella vita diventa forma d’arte, forse salvezza dalla follia o proprio follia perché è uno
sguardo sull’interiore, sull’invisibile.
Ho trovato il modo di costruire utilizzando come materia dell’ideazione le mie paure: è così che
sento la purezza del gesto artistico, la mia folle umanità che è un sensibile stare stare al mondo.
È allora che tali paure non sono più solo le mie, l’opera può diventare così un “contenitore” delle
fragilità anche degli altri.
So bene che dar forma artistica alle invisibili paure è un rifugio, un tenersi lontani, qualche cosa
di salvifico. L’arte è forse la risposta a quel sentirsi sempre toccati dal mondo, la sensibilità più
profonda è capace di elaborare ciò che ci circonda, svelare la sacralità della vita: che sia l’attesa
di una Lezione di danza in Edgar Degas o una lastra di vetro al limite della sua resistenza di
Arcangelo Sassolino.
Il grande tiglio
In questi giorni ho con me un grande albero di tiglio: robusto, impossibile da trasportare se non
con grandi braccia meccaniche. Durante l’estate quel grande tronco diventerà lieve: accoglierà
vuoti senza peso, fluide trasparenze, si farà delicato come furono le sue foglie al vento e come la
vita di tutti. Diventerà un’opera artistica che parlerà della natura, dell’essere umano come
qualche cosa di cristallo: la pesantezza del tiglio diventerà la mia, la mia quella del tiglio, alla
fine alleggerita. Farla diventare opera artistica sarà un gesto di libertà perché risponde ad un
“principio di necessità interiore”: l’elaborazione di uno stato d’animo.
Lavorare con un albero
In natura lavoro sempre con gli alberi. Ogni volta che ho un albero come compagno cerco di
svelare qualche cosa di quella presenza naturale, il dono che l’albero mi fa: il suo animo.
È allora che piano piano inizio a scavarlo, quasi a spogliarlo e ne ho grande pudore. È un lavoro
molto intimo, procedo con timore e ancora una volta ciò che si mette a nudo è la fragilità
dell’essere naturale. Il grande albero ha svelato il suo animo più sottile e delicato: è nudo.
Spogliare gli alberi con pudore: una follia, forse anche un gesto violento.
Il Cristo di Donatello in Santa Croce era un albero di pero, germogliava, fioriva e donava i suoi
frutti.
Egon Schiele
C’è un giovane artista che ha spogliato i corpi degli uomini e delle donne: corpi dove ciò che è
messo a nudo è la gracilità dell’essere.
I corpi contorti dipinti da Schiele mi sono sempre sembrati esili piantine al vento (e di esili
piantine Schiele ne ha dipinte, sostenute da paletti verticali): corpi naturali tremanti e
spaventati. Condizione umana colta dall’artista giudicato dagli altri uomini del suo tempo un
folle pornografico.
Dell’inutile follia dell’arte
Forse l’uomo è l’essere vivente che costruisce cose che non sono direttamente utili alla propria
sopravvivenza; le termiti costruiscono castelli molto simili alla Sagrada Familia, chissà se anche
loro vogliono elevare la loro anima comune.
E chissà cosa pensavano gli altri uomini di quel cacciatore che ha realizzato il primo ritratto
umano, la Dama di Brassempuy (28.000-22.000 anni fa), un gesto gentile di dolcezza in un
mondo crudo in cui si doveva sopravvivere. Lo avranno pensato folle, quel gesto non era per loro
utile.
Invece quel gesto artistico gli era necessario: l’uomo voleva elevare il suo animo e plasmare i
suoi fragili pensieri invisibili che si chiamano sentimenti, anche questo è necessario per
sopravvivere e agli altri uomini può sembrare folle.