Bisogna non cambiare prospettiva, ma abbandonare la prospettiva, se vogliamo rientrare nel mondo. Il mondo in cui siamo crea continuamente, e senza soluzioni di continuità, rappresentazioni rendendole allo stesso tempo irraggiungibili. Giriamo perciò come il criceto nella ruota. La domanda è come rompere la cornice se il contenuto del quadro è diventato la cornice?
La merce in cui siamo trasformati vive del desiderio che le macchine desideranti proiettano su di essa, non certo di una qualche realtà. Questa persistenza in vita di ciò che è morto è ad ogni evidenza impenetrabile e ammette al massimo compromessi che si propongono come il nuovo nome della sconfitta. Voltarsi e non dall’altra parte, perché non c’è una parte che ci può salvare, vuol dire allora solo ri-voltarsi. Voltarsi cioè due volte in modo da tornare con occhi inediti al punto di partenza, non aspettandosi di trovare alcuni ad attenderci, ma solo coloro, i pochi o meglio i pochissimi, con cui abbiamo concordato un patto esistenziale di rivolta. Tanto pochi che possono iniziare dalla minoranza di due, che non hanno aspettative ma utopie da condividere, con un patto dis-perato, che nulla abbia a che fare con la speranza ma solo con l’azione.
Un’azione cieca e senza progetto, perché quel progetto sarebbe estorto sul nascere e prontamente utilizzato per conformarlo all’esistente. Un’azione senza destino, capace solo di attivare chi agisce al fine esclusivo di apprendere modi mai visti di agire, disapprendendo i modi precedenti e noti. Il criterio sarà solo uno: nulla di ciò che è noto ci riguarda e solo imparare forme mai viste di azione ci interessa inventare. Il senso della rivolta allora cercherà di essere: ciò che ci unisce è la lacerazione del pensiero fino ai confini dell’impensato; l’impossibilità di dire e di essere detto.