- La rivolta dei Maestri
Il drammaturgo francese Michel Vinaver per sondare gli enigmi del gioco linguistico utilizza la metafora della scherma, delle sue tante mosse e figure. Interpreta cioè la scherma come un gioco di conversazione nel quale ogni battuta (ogni attacco) provoca una replica (una parata e una risposta). Ebbene, nel linguaggio schermistico dicesi “invito” la mossa che fa uno schermitore aprendo la propria guardia con l’obiettivo di provocare un attacco. Dopo il rituale dei saluti iniziali, che terminano con il gesto di calzare la maschera protettiva (altro momento che accomuna scherma e teatro), è così che ha inizio il gioco vero: la danza delle parate e delle risposte. Ovviamente, si dirà, nella scherma l’obiettivo è vincere. Ma questo non è del tutto vero. La vittoria infatti comporta la fine della contesa mentre l’ideale supremo della scherma è un confronto infinito fra due avversari nel quale a ogni attacco segue una parata e una risposta. E così via. Come in un dialogo socratico che non terminasse mai. Perché la mossa perfetta, la finta perfetta, non esiste. Ogni finta ha la sua contraria. Allo stesso modo, anche nel gioco della conversazione ciò che è in palio non sempre è la vittoria, non sempre è avere ragione. Dal momento che tutti hanno ragione, la conversazione ideale è quella che continua a lungo, più a lungo possibile, possibilmente all’infinito. Perché finché parliamo, finché abbiamo storie da raccontare, voce per dare parole al mistero della nostra esistenza, ne allontaniamo la fine. La parola più triste del vocabolario, secondo Federico Fellini.
Pensavo proprio a questo un attimo prima di ricevere l’invito di provare a riflettere sui termini Rivolta e Teatro. Un invito la cui immediata conseguenza sono stati dei gran rumori e delle voci nella mia Memoria. Qualcuno parlava e stava bussando con insistenza alla sua porta. Il che mi ha subito distolto dalla scherma. Rispettando però le sue regole che m’imponevano di accettare il gioco.
Del resto, aprire la porta della Memoria è sempre un gran piacere. Infatti anche quella volta ho avuto una bella sorpresa: davanti ai miei occhi si è materializzata una folla festante di uomini e donne che chiedevano con insistenza di parlarmi. All’inizio c’era una gran confusione perché ognuno aveva qualcosa da dire, qualcosa – dicevano – di molto importante e urgentissimo. Mi hanno chiesto di fare molta attenzione perché sarebbe stato mio compito riportarvi fedelmente le loro parole. Per loro purtroppo era ormai impossibile farlo.
Alcuni di quegli uomini li ho riconosciuti subito. Molti altri invece, soprattutto le donne, numerose, non avevo idea di chi fossero.
«I nomi non sono importanti», mi bisbigliò una sconosciuta per tranquillizzarmi. «Siamo semplici spettatrici e spettatori. Persone qualsiasi. Non può conoscerci».
Il primo che riconobbi – probabilmente colui che aveva bussato più forte –, è stato Antonin Artaud. Impossibile dimenticare quei due occhi magnetici. Mi ha preso per un braccio, me l’ha stretto forte e con la sua voce spigolosa ha fatto questa dichiarazione:
«Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che vi sfugge. E se la vostra vita manca di zolfo, cioè di una costante magia, è perché vi compiacete di contemplare le vostre azioni anziché lasciarvi condurre da esse. Soltanto dopo questa premessa si può incominciare a delineare un’idea della cultura. E quest’idea è anzitutto una protesta. Protesta contro la cultura come concetto a sé stante, quasi che esistesse la cultura da un lato e la vita dall’altro; come se l’autentica cultura non fosse un mezzo raffinato per comprendere ed esercitare la vita. Spezzate il linguaggio, soltanto così raggiungerete la vita! Soltanto così farete, anzi rifarete il teatro. Dovete credere in una concezione della vita rinnovata dal teatro, dove l’uomo divenga impavidamente signore di ciò che ancora non esiste e lo faccia nascere. Perché tutto ciò che non è nato può ancora nascere».
«Mò me lo segno», gli ho risposto rubando la famosa battuta di Troisi. Stavo comunque per chiedergli di proseguire ma, con un sorriso smagliante, Dario Fo mi ha preceduto.
«Bravo. Hai fatto bene a rispondergli così. Artaud è bravo. Anzi, bravissimo. È un teatrante formidabile e anche una persona splendida. Ma a volte, quand’è di malumore, diventa oracolare e si prende troppo sul serio. Invece non ci si deve mai dimenticare che divertirsi è la cosa più importante. La risata è liberatoria. Aiuta a scoprire che il contrario sta in piedi meglio del luogo comune, anzi è più vero o, almeno, più credibile. Però, attenzione, non si deve divertire soltanto. Io, in tutta la mia vita, non ho mai scritto niente per divertire e basta. Dentro i vostri spettacoli dovete sempre mettere una crepa, qualcosa che sia capace di mandare in crisi le certezze, in forse le opinioni, di suscitare indignazione, di aprire un po’ le teste. La bellezza per la bellezza invece no, quella non vi deve interessare».
Mentre si svolgeva tutto questo, con la coda dell’occhio avevo visto un’uomo che se ne stava in disparte. Anche se non si mescolava, era però chiaro che aveva una gran voglia di dire la sua. Riconoscerlo non fu difficile, si trattava di Luigi Pirandello.
«Sì, gridate, gridate – suppongo stesse pensando –. Gridate pure la verità in faccia a tutti. Nessuno ci crederà, e vi prenderanno tutti per pazzi!»
Confuso nella folla, il suo ambiente preferito, vidi Bertolt Brecht che ci guardava malizioso. Fumava il suo sigaro e sorrideva anche lui, ma in modo sornione. Mi si è avvicinato e mi ha sussurrato, come in segreto:
«La mia speranza è negli spettatori. Ne basterebbe uno, uno soltanto, seduto in platea col sigaro fra le labbra, e tutto il vostro teatro rischierebbe di crollare. Quel sigaro potrebbe accendere la miccia di una bomba! A un simile spettatore vi sarebbe impossibile proporre un teatro gigionesco e vecchio. Sì, questo è l’unico motivo di speranza che ha il teatro oggi: coloro che dopo la rappresentazione lo abbandonano fuggendo. Sono gli scontenti».
Purtroppo non mi fu possibile replicare – del resto ero d’accordo – perché in quel momento un uomo misterioso, placidamente accoccolato a gambe intrecciate e assorto nei suoi pensieri, Jerzy Grotowski, mi ha fatto un cenno gentile e con autorevolezza mi ha convocato.
«Il teatro è ciò che avviene tra uno spettatore e un attore. E dev’essere un luogo di provocazione, una sfida che l’attore lancia a se stesso e anche, indirettamente, agli altri. Deve servire ad attraversare le frontiere fra le persone. Avrà significato solo se vi permetterà di trascendere la vostra visione stereotipata, i vostri livelli di giudizio. Soprattutto non deve mai diventare un fine. Dev’esser qualcosa che vi aiuti a verificare la realtà, che vi aiuti a rinunciare a tutte le finzioni di ogni giorno. Soltanto così, in uno stato totalmente inerme, potrete svelare, donare, scoprire voi stessi. Del resto il teatro non è affatto indispensabile».
Accanto a lui era seduto Jacques Copeau che annuiva e così proseguì i concetti appena espressi.
«Una cosa, amico mio, è certa: il teatro non nascerà mai là dove la vita è piena, dove si è soddisfatti. Il teatro nascerà, rinascerà, dove ci sono delle ferite, dei vuoti. E’ lì che qualcuno ha bisogno di stare ad ascoltare qualcosa che qualcun altro ha da dirgli».
In quel mentre, improvvisamente, tutti sono indietreggiati di qualche passo per far largo a un gentiluomo con cappello e bastone. Avanzava placido, fumando una sigaretta candida infilata in un lungo bocchino nero. Mentre si avvicinava, Brecht mi ha confidato a bassa voce che era un grande filosofo spagnolo. Si chiamava Josè Ortega y Gasset e mi suggerì di ascoltarlo con molta attenzione.
«Se desiderate che il teatro torni a essere qualcosa di vivo, di forte, capace di turbare i cuori inerti, se desiderate un teatro che sia una doccia al servizio dell’igiene morale, che sia un esercizio, un combattimento, be’, se davvero desiderate questo, allora dovete darvi da fare, e rapidamente anche.
Ma che potete saperne voi del teatro?»
Stavo per replicare, perché quest’ultima osservazione m’aveva infastidito, ma lui mi fermò.
«Non volevo essere scortese. Capisco il suo disappunto. Lasci che chiarisca meglio quello che intendevo dire.
Supponete che l’unica volta in cui avete visto un uomo e parlato con lui avesse avuto un crampo allo stomaco, o un attacco di nervi, o quaranta gradi di febbre. Bene. Se qualcuno vi chiedesse che opinione vi siete fatti di quell’uomo, vi considerereste in grado di definire il suo carattere e le sue doti?
Evidentemente no. Avete conosciuto quell’uomo quando non era propriamente un uomo, ma soltanto la rovina di quell’uomo. Per usare uno splendido termine sportivo non lo avreste conosciuto quando era “in forma”, ma quand’era ormai “in rovina”.
Cercate invece di ricordare le grandi epoche del teatro: il V secolo di Atene, con le sue migliaia di tragedie e commedie; gli anni a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, con il teatro inglese e spagnolo, con Shakespeare, Ben Jonson, Lope de Vega e Calderón; la tragedia francese, con Corneille, Racine, Marivaux; il teatro tedesco, con Goethe e Schiller; la Commedia dell’Arte… Ecco, questo è stato il teatro quand’era “in forma”.
E badi bene che non mi riferisco soltanto a quei geni poetici. Non furono loro da soli a riportare e mantenere in forma il teatro. Da soli non avrebbero potuto far niente. Oltre a loro, accanto a loro, ci furono gli attori, la scena in cui le opere vennero allestite, e soprattutto il pubblico che vi partecipò. Per avere un teatro “in forma” servono tutti gli ingredienti. Ricordatelo. Tutti gli ingredienti».
Avendo ascoltato questi maestri, Vsevelod Mejerchol’d, che all’inizio era fra i più scalmanati, adesso appariva rasserenato. Aveva anche lui – disse – tante cose da raccontare. Non aveva mai potuto farlo per via della censura. Gli era vicino e gli teneva un braccio sulle spalle Ettore Petrolini, con cilindro, bastone e frac (o forse era un tight? chissà?). Pareva volesse proteggerlo. Era evidente che s’erano finalmente conosciuti e avevano stretto amicizia.
Ne fui felice.
Tutte quelle apparizioni mi hanno parlato ancora, a lungo, ma purtroppo (o forse per vostra fortuna) non avrò modo di dirvi tutto ciò che mi hanno insegnato. Magari ci sarà un’altra occasione.
Sì, perché mentre la mia Memoria dava fondo ai suoi ricordi e quei volti andavano dissolvendosi, mi è sorto un dubbio. Forse – ho pensato –, una ricognizione storica così vasta annoierebbe. E la noia è la più grande nemica sia del teatro che dello spirito di rivolta. Mi è stata chiesta una cosa più semplice.
2. È possibile ribellarsi oggi?
Avrei potuto cominciare diversamente. Per esempio sostenendo, con qualche ragione, che i termini “rivolta” e “teatro” sono poco compatibili. Cioè, che parlare di rivolta a teatro significa fare un ossimoro: accostare due termini che sono in rotta di collisione. Ed è così per un motivo chiaro come il sole: il teatro non può vivere senza avere successo nel momento stesso in cui viene realizzato. Diversamente da altre forme d’arte che sono durevoli, il successo del teatro non può verificarsi nel futuro perché appena terminato quello spettacolo svanirà. Il teatro quindi potrà partecipare alla rivolta soltanto se anche il pubblico vorrà ribellarsi. Ma in questo caso il teatro sarà stato sì in rivolta contro il potere, ma d’accordo con il suo pubblico. Quindi avrà avuto successo e di conseguenza non potremo definire quello spettacolo solo come uno spettacolo di rivolta. Ne ridurremmo i significati e rischieremmo di non vedere che è stato anche in sintonia con una vasta corrente di sentimenti. Questo è anche il motivo per cui tutti i grandi maestri teatrali non sono stati soltanto ribelli, ma ribelli e riformatori. Si ribellavano, ma al tempo stesso chiedevano riforme. Oppure, ma abbastanza raramente, rivoluzioni. I loro testi, le loro compagnie, i loro spettacoli, hanno cambiato il teatro per sempre. Hanno modificato per sempre le nostre idee. Quindi si deve parlare di loro come di rivoltosi riformatori. Riformatori che, per proporre le loro novità, per “rivoltarsi” contro il presente, sono scesi a patti con il pubblico. Hanno cioè, usando un’illuminante espressione di Franco Fortini, nascosto “la lima nella pagnotta”. La lima per evadere dentro la pagnotta del divertimento.
In fondo non può che essere così, dal momento che, come ci ha insegnato Ortega y Gasset, il teatro non è una cosa soltanto ma quattro cose assieme: rito, orgia, divertimento, arte. Quattro cose che, con un gioco di prestigio, devono farsi una.
Rivolta e teatro possono stare assieme soltanto in forme ambigue anche per un secondo motivo, insormontabile: a chi volesse soltanto ribellarsi sarebbe molto difficile avere accesso ai cospicui mezzi tecnici, logistici e economici, che sono necessari per fare gli spettacoli. Un ribelle, in teatro non avrebbe la possibilità di esprimersi e di avere successo. Sarebbe presto costretto al silenzio e noi, di lui, non sapremmo più niente.
La rivolta infatti, nel suo significato più genuino, è un fuoco impetuoso ma di dimensioni circoscritte e di breve durata. Non si propaga, non resiste nel tempo, come avviene con la rivoluzione. Per questo essa è spesso un fatto solitario, un gesto individuale. E anche quando è realizzata da un gruppo di persone, non raggiunge mai il consenso della maggioranza. Ci riuscisse si trasformerebbe in rivoluzione.
Mentre stavo sviluppando queste prime, abbastanza banali, precisazioni ho pensato che avrei dovuto farmi due altre domande, più semplici e soprattutto concrete.
È quindi impossibile ribellarsi in teatro?
E: quale è stato, nella mia limitata esperienza di spettatore delle vicende teatrali, l’ultimo gesto di ribellione (userò i termini rivolta e ribellione come sinonimi) cui ho assistito?
La risposta alla prima domanda è semplice. Ribellarsi è e sarà sempre possibile. Magari sarà molto difficile; magari ci saranno conseguenze terribili, ma è possibile. Se però la mia rivolta non si trasformerà in un movimento riformatore, terminerà presto in un fallimento.
Per quanto riguarda la seconda domanda, di episodi me ne sono venuti in mente due. Anzi tre. Be’ a dire la verità quattro. Se ci aggiungo quelli di cui ho avuto soltanto racconti.
Il primo episodio di ribellione risale al 1976. Avevamo organizzato un ciclo di rappresentazioni di Sette meditazioni sul sadomasochismo politico del Living Theatre. Nello spettacolo, più o meno alla sua metà, un attore veniva portato nudo in scena, appeso a un palo. Altri attori, i suoi carnefici, simulavano una tortura a base di scosse elettriche nei testicoli. Tutto molto convincente ma anche, ovviamente, finto.
Una sera però una spettatrice entrò in scena (era facile farlo perché noi spettatori eravamo disposti in cerchio allo stesso livello della scena) e, in uno stato chiaramente confusionale, implorò piagnucolando che interrompessero quel trattamento disumano. Gli attori si pietrificarono, non sapevano che fare. Quell’improvvisa irruzione della realtà, se da una parte suonava a elogio della bontà della recitazione, d’altro canto rischiava di mandare a monte la serata. Julian Beck mi guardò in cerca d’aiuto. Così decisi di entrare in scena anch’io: abbracciai la spettatrice, la presi per mano e cominciai a sussurrarle qualcosa per tranquillizzarla. Non so dire quanto tempo passò, un minuto, due, tre; il tempo s’era dilatato. Alla fine però riuscii a calmarla e la riaccompagnai nel cerchio degli spettatori. Quando lo spettacolo terminò, scoprii che qualcuno aveva pensato che anche quella scena ne facesse parte. Invece s’era trattato di una rivolta individuale. Quella donna non accettava quella crudeltà e si era ribellata.
Subito dopo mi sono ricordato di un altro, più strutturato gesto di rivolta. Ne fu protagonista Alessandro Baricco e risale all’ormai lontano 2009. Ho detto “gesto” ma si trattò di due articoli usciti sul quotidiano La Repubblica: il primo il 24 febbraio, il secondo il 4 marzo. Si trattò di parole dunque, che però vennero interpretate, come talvolta accade alle parole, come vere e proprie bombe piazzate nei Teatri italiani. Chi vorrà leggere quegli articoli potrà facilmente trovarli nell’archivio on-line del quotidiano.
3. La rivolta di Alessandro Baricco
Cosa aveva detto Baricco? Be’, un bel po’ di cose. In sostanza aveva chiesto di smettere di finanziare il teatro e la musica con i soldi pubblici e di destinare invece questi fondi a promuovere la conoscenza e la pratica di teatro e musica nella scuole e nella televisione. Cioè, là dove si potevano trovare quei giovani e quegli spettatori che mancavano tragicamente nei Teatri. Per il resto si sarebbe dovuto lasciar fare al mercato, promuovendo leggi che facilitassero l’iniziativa e gli investimenti privati.
Baricco riepilogava così gli obiettivi che in passato avevano motivato le sovvenzioni pubbliche (cito le sue parole):
1) “allargare il privilegio della crescita culturale, rendendo accessibili i luoghi e i riti della cultura alla maggior parte della comunità”;
2) “difendere dall’inerzia del mercato alcuni gesti, o repertori, che probabilmente non avrebbero avuto la forza di sopravvivere alla logica del profitto”;
3) “la necessità che hanno le democrazie di motivare i cittadini ad assumersi la responsabilità della democrazia: il bisogno di avere cittadini informati, minimamente colti, dotati di principi morali saldi, e di riferimenti culturali forti”.
Questi motivi erano ancora validi, ma adesso andavano ricollocati altrove.
Infatti, per quanto riguarda il primo obiettivo, non aveva “più senso pensare alla cultura come al privilegio circoscritto di un’élite abbiente”. Questo vecchio privilegio ormai era stato abbattuto e “la cassaforte dei privilegi culturali” era stata “scassinata”. Lo si poteva constatare in modo “clamoroso” nell’editoria, nella musica leggera e negli audiovisivi: “ambiti in cui il denaro pubblico” era stato praticamente assente. A scassinare quella cassaforte avevano provveduto altri, più potenti, fenomeni: “Internet, globalizzazione, nuove tecnologie, maggior ricchezza collettiva, aumento del tempo libero, aggressività delle imprese private in cerca di un’espansione dei mercati”.
Invece, là dove l’intervento pubblico era stato massiccio (il melodramma, la musica classica e il teatro) tutto era stagnante.
Non poteva esserci indizio più chiaro del fatto che se si volevano “eliminare barriere e smantellare privilegi”, era preferibile affidarsi al mercato.
Baricco ammetteva quindi che “la battaglia contro il privilegio culturale” era “ancora lontana dall’essere vinta”. Però pensava che i confini dove si doveva combatterla si erano definitivamente spostati. Chi non aveva accesso alla cultura doveva essere raggiunto nei luoghi dove lo si poteva trovare davvero, cioè nella scuola e davanti a un televisore. In sostanza, combattevamo nei luoghi sbagliati.
Era ancora valido anche il secondo obiettivo: difendere “gesti e repertori preziosi”. Occorreva però un grande “candore” e un’inguaribile ”ottimismo” per “credere che la politica” fosse in grado di decidere “cos’era da salvare e cosa no”. Al contrario, “l’accanimento terapeutico su spettacoli agonizzanti, e ancor di più la posizione monopolistica” determinata dalle sovvenzioni pubbliche, avevano prodotto un gran numero di danni.
Qui Baricco portava un attacco deciso al teatro di regia, “diventato praticamente l’unico teatro riconosciuto in Italia”. Ci aveva regalato, scrisse, “indimenticabili spettacoli”, ma aveva comportato un prezzo alto: la decimazione dei drammaturghi e la mortificazione degli attori. Con il bel risultato di distruggere “quel fare rotondo e naturale che mettendo semplicemente in linea uno che scrive, uno che recita, uno che mette in scena e uno che ha soldi da investire, produce il teatro come lo conoscono i paesi anglosassoni”.
Passando al terzo e ultimo obiettivo – la crescita culturale dei cittadini come base della democrazia –, Baricco aveva una domanda insidiosa da sottoporci: “come mai la grandiosa diga culturale che avevamo immaginato di issare con i soldi dei contribuenti” aveva ceduto così rovinosamente davanti al fenomeno Berlusconi e all’irruzione nelle nostre vite delle televisioni private? Come mai “I concerti di lieder, le raffinate messe in scena di Cechov, la Figlia del reggimento, le mostre sull’arte toscana del quattrocento, i musei di arte contemporanea, le fiere del libro” non erano serviti a niente davanti al “Grande Fratello”?
Seguivano le proposte cui ho già accennato. Per raggiungere quegli obiettivi occorreva cambiare strategia e fare due cose.
1) Destinare tutte le risorse alla scuola e alla televisione. Lì si trovava il Paese reale e lì si doveva combattere. Non aveva senso consentire a mandrie intere di cittadini di fuggire “dal recinto, senza battere ciglio, per poi dannarci a inseguire i fuggitivi, uno a uno, tempo dopo, a colpi di teatri, musei, festival, fiere e eventi, dissanguandoci in un lavoro assurdo”.
Si doveva trovare il coraggio per: chiudere i Teatri Stabili e le Fondazioni e contemporaneamente aprire un teatro in ogni scuola; preparare una nuova generazione d’insegnanti; fare buone trasmissioni televisive sui libri; finirla con i Convegni; fregarsene dell’Auditel. Insomma, i pochi soldi che c’erano andavano destinati a fare “una cosa che il mercato non sa e non vuole fare: formare un pubblico consapevole, colto, moderno”.
2) Gli spazi che si sarebbero aperti all’iniziativa privata non dovevano far paura. Non era del resto già successo che i privati monopolizzassero l’editoria e l’informazione? Eppure nessuno sentiva la mancanza “di una casa editrice o di un quotidiano statale, o regionale, o comunale?” Perché nel teatro non poteva avvenire qualcosa di simile?
Baricco faceva anche altre proposte (prezzi bassi, meno tasse, accesso al patrimonio immobiliare, abbassamento del costo del lavoro, agevolazioni al credito), e concludeva con un appello:
“Il mondo della cultura e dello spettacolo, nel nostro Paese, è tenuto in piedi… da migliaia di persone… che fanno quel lavoro con passione e capacità: diamogli la possibilità di lavorare in un campo aperto, sintonizzato coi consumi reali, alleggerito dalle pastoie politiche, e rivitalizzato da un vero confronto col mercato”.
L’intervento di Baricco non ebbe, per usare un eufemismo, successo. Le reazioni, quando ci furono, furono di indignazione. Quando ci furono appunto, perché la reazione più diffusa fu il silenzio. Nessuna voce si levò, per esempio dal mondo della scuola, che pure era stato chiamato in causa. E anche la maggior parte degli addetti ai lavori si chiuse in un silenzio sdegnato e, aggiungo, vigliacco. Nicola Piovani provò a cavarsela con una battuta di cattivo gusto: “Aho! Levateje ‘r vino”.
Eppure cose da dire ce ne sarebbero state, perché non tutto quello che Baricco aveva sostenuto era condivisibile. Ci sarebbe stato molto da approfondire. Nessuno però raccolse la provocazione, nessuno provò ad aprire un dibattito, magari criticando. Nessuno accettò l’invito e iniziò a giocare.
Per qualche giorno sfogliai i quotidiani sperando di trovare qualche altro intervento. Attesi inutilmente. Insomma, Baricco aveva gettato un sasso in uno stagno (altra metafora che rende l’idea dello stato delle cose nel teatro italiano) e le poche onde prodotte si acquietarono in breve tempo.
Il gesto di Baricco, che avrebbe potuto aprire un movimento, di rivolta prima e di riforma poi, di cui il teatro aveva un gran bisogno, venne così silenziato. Baricco in realtà non era un rivoltoso, aveva secondo me fatto il più classico degli inviti: l’invito a rimboccarsi le maniche e impegnarsi a fare quelle riforme radicali che erano necessarie. La reazione di terrore che ricevette in cambio, il rifiuto di accettare quell’invito, confinò il suo gesto coraggioso nel recinto delle ribellioni individuali.
Mi assumo la mia parte di responsabilità. Anch’io rimasi in silenzio. A mia parziale giustificazione c’è il fatto che proprio in quei giorni mi stavo dimettendo, per ragioni analoghe a quelle denunciate da Baricco, dal Teatro in cui lavoravo. Guarda caso infatti, di quel Teatro avevo fondato e dirigevo proprio il dipartimento educativo e quindi lavoravo da più di vent’anni proprio nelle direzioni che lui aveva lucidamente indicato. I programmi che avevo ideato avevano stabilito legami profondi con tutte le scuole della città e con le principali scuole di teatro europee, gestivamo una scuola di teatro internazionale, il Teatro era sempre pieno di giovani. Tutte cose che, a testimonianza del fatto che le proposte di Baricco non erano rivoltose ma riformatrici, esistono ancora oggi e godono ottima salute.
Una stagione però volgeva al termine; anzi, si era già chiusa. Ci sarebbe stato ancora molto da fare, capii che non me ne sarebbe stata data la possibilità. Avevo perso anch’io la mia battaglia. Le dimissioni, cioè la mia inutile rivolta individuale, mi consentirono almeno di conservare l’onestà intellettuale.
Non so se da quanto ho detto si possono trarre delle conclusioni. In realtà concludere non mi piace: non è né da rivoltosi né, tantomeno, da riformatori (Brecht avrebbe detto: scontenti). Molto meglio lasciare aperto, come negli ideali della conversazione e della scherma.
Quello che mi sembra di poter dire, anche avendo ascoltato i maestri della mia Memoria, è che le rivolte individuali servono a ben poco. Anche in questo concordo con Brecht: servirebbe una rivolta degli spettatori per rigenerare il teatro. E questo ci conduce dritti dritti all’ultima domanda: qualche caso di rivolta degli spettatori c’è mai stato? Ebbene sì, e ve ne darò due esempi.
4. La rivolta degli spettatori
Il più celebre si verificò il 25 febbraio del 1830 al Théâtre Français di Parigi. Quella sera, quando andò in scena per la prima volta Hernani o L’onore castigliano di Victor Hugo, in platea e nei palchi scoppiò un vero finimondo. Classicisti e romantici si accapigliarono in una battaglia furibonda passata alle cronache come “battaglia di Hernani”. Ciò nonostante il dramma fu un enorme successo e Hugo ne uscì vittorioso.
C’è poi un secondo caso, a noi più vicino. Lo strano caso del Birraio di Preston.
Racconta Andrea Camilleri che nel corso dell’Inchiesta parlamentare sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia, e precisamente nell’udienza del 24 dicembre 1875, venne ascoltato un giornalista, Giovanni Mulé Bertolo. C’era molta preoccupazione in giro, pochi anni erano trascorsi dalla proclamazione dell’Unità d’Italia e i segnali di rivolta erano chiari. Perciò s’indagava per sapere quale fosse l’atteggiamento della popolazione di Caltanissetta e provincia nei riguardi della politica governativa.
Mulé Bertolo affermò che le cose erano migliorate in seguito all’allontanamento del prefetto, un tal Fortuzzi, fiorentino. Pare che costui si fosse inimicato la popolazione per via di un carattere arrogante. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso del risentimento e aveva scatenato la rivolta era stata la sua decisione di celebrare l’inaugurazione del Teatro di Caltanissetta con un’opera poco conosciuta: Il birraio di Preston di Luigi Ricci. «Voleva imporre anche la musica a noi barbari di questa città! E con il nostro denaro», disse Mulé Bertolo. In molti avevano cercato di dissuadere Fortuzzi ma lui, non si è mai saputo perché, si era intestardito.
Durante la rappresentazione erano accaduti numerosi incidenti e a un certo momento anche qualcosa di più serio perché in Teatro erano addirittura entrati «militi a cavallo e truppa con le armi». Evidentemente gli spettatori si erano rivoltati contro il Prefetto e avevano deciso di non far terminare l’opera impunemente. La commissione parlamentare, probabilmente per evitare uno scandalo, preferì glissare e passare a un altro argomento.
Non glissò Andrea Camilleri. “La storia – queste sono le sue parole – mi pigliò e cominciai a travagliarci sopra”. Ne venne fuori un romanzo, che “è tutto inventato, a parte, naturalmente, lo spunto iniziale”.
Come sa chi lo ha letto, Camilleri immagina che quella sera nel Teatro di Vigàta (in realtà si trattava del Teatro Margherita di Caltanissetta) il pubblico, in parte inferocito, in parte divertito, avesse dapprima affossato e poi impedito la rappresentazione dell’opera di Luigi Ricci, intervenendo a più riprese con ironia e sarcasmo, commentando ciò che avveniva in scena e perfino dialogando con i cantanti; in sostanza impedendo che l’azione scenica avanzasse secondo copione. L’illusione teatrale, che prevede un pubblico silenzioso, la piacevole sospensione dell’incredulità, quella sera fu clamorosamente e umoristicamente infranta. Il comportamento del pubblico di Vigàta non fu però un caso di maleducazione, ma una rivolta nei confronti dell’insolente Prefetto Fortuzzi. Un caso di legittima difesa.
Scrivendo dei divertentissimi tumulti del pubblico di Vigàta, Camilleri stava anche scrivendo il suo addio al teatro. Il libro è del 1995 e lui, ancora sconosciuto al grande pubblico, si stava preparando a entrare nella sua seconda esistenza, quella di romanziere. Decise di accomiatarsi dal teatro che lo aveva accolto per tanti anni e di salutarlo con un gesto d’amore e di speranza. Lo fece riaprendo la porta d’ingresso del Teatro, quella dalla quale si accede alla platea. La stessa porta, opposta a quella da cui entrano gli artisti, da cui Pirandello aveva fatto entrare i sei personaggi.
È noto quel che avvenne la sera della prima romana dei Sei personaggi, il 9 maggio 1921. Gli spettatori del Teatro Valle per vedere gli attori furono costretti, come non era mai successo, a voltarsi indietro. Fu come se gli avessero tirato un colpo alle spalle. Gli spettatori – costretti a chiedersi dove fosse il teatro se non era più, come sempre, sul palcoscenico ma anche “fra” loro, in platea, dove nei Sei personaggi, per gran parte del tempo, si svolgono le azioni –, rimasero sconvolti e le reazioni furono furibonde. Fra i sostenitori e i detrattori volarono insulti, ci fu qualche rissa, tanto che Pirandello dovette allontanarsi dal Teatro uscendo da una porta laterale.
Camilleri, nel Birraio, ha fatto una cosa diversa, ha fatto l’opposto. Ha fatto entrare in Teatro non degli attori ma un’umanità intera di uomini e donne perché se ne appropriassero a modo loro, con le loro vicende, i loro sberleffi, la loro voglia di vivere. E soprattutto con un’insopprimibile volontà di ribellione – simile a quella del loro autore e di Pirandello – nei confronti della stupidità e del potere. Ha aperto la porta del Teatro e ha fatto entrare il popolo dell’immaginaria ma concretissima Vigàta. A questa comunità ha restituito il teatro che gli era stato sottratto dal Prefetto fiorentino Fortuzzi. Perfetto rappresentante di quel potere ottuso che denuncia anche Baricco.
Un pubblico che si rivoltasse questo infatti chiederebbe: di aprire di nuovo le porte dei Teatri perché la vita possa entrarvi.
Ciò che del teatro infatti è oggi in crisi è il suo essere l’incontro di due comunità: quella degli attori e quella degli spettatori. Il teatro, non dovremmo dimenticarlo mai, è nato assieme alla democrazia e alla scoperta che la verità è contendibile, ed è entrato in crisi perché le due comunità che dovrebbero farlo hanno entrambe, contemporaneamente, cessato di esistere.
E adesso, prendiamo una bella boccata d’aria: lasciatemi immaginare. Permettete che mi conceda qualche secondo di visionarietà. Immaginerò qualcosa che ritengo necessario aggiungere alle proposte di Baricco. Qualcosa che, a mio parere, dovrebbe essere al primo posto nelle richieste dei rivoltosi che volessero provocare un movimento di riforma e rinascita.
5. L’immaginazione al potere
Assieme a capolavori straordinari, abbiamo ereditato edifici bellissimi, fastosi. Ma è lampante che questi edifici sono poco adatti ai tempi, alle domande e ai linguaggi di oggi. Quindi, perché il teatro rinasca bisogna che si costruiscano di nuovo gli edifici dove sia possibile farlo. Bisogna costruire nuovi teatri. E bisogna costruirli avendo il coraggio di ripensarli appunto come nuovi. Radicalmente nuovi.
Dovranno essere luoghi dove sia possibile non soltanto fare spettacoli ma anche fare ricerca, studiare, fare scuola, corsi, laboratori, incontri e molto altro. Dove sia facile passare da sale grandi a sale piccole. Dovranno essere belli, ma non sontuosi; accoglienti e aperti, ma non austeri e intimidenti. Questi nuovi teatri dovranno ospitare biblioteche e librerie, sale cinematografiche e audiovisive, spazi digitali e musicali, ricreativi e sportivi, bar e ristoranti. Tutte attività che, grazie a chi li frequenterà e anche con i loro introiti, li aiuteranno a vivere. I cittadini che si saranno ribellati avranno di nuovo voglia di andarci. E non soltanto di sera ma in qualunque momento della giornata. Perché saranno aperti ventiquattro ore ogni giorno e ci sarà sempre qualcosa da fare. Quando poi non ci fosse niente da fare si avrà voglia di andarci lo stesso, perché saranno luoghi comodi e gentili. Luoghi di amicizia e convivialità.
Non trovandoli, quando negli anni ’70 la mia generazione si affacciò piena di speranze alla soglia di quest’arte antica, anziché bussare alla porta chiedendo permesso, elaborò un programma che fu ben riassunto in una parola d’ordine: teatro fuori dai Teatri. E non ci fermammo alle parole, quel programma lo mettemmo in pratica, invadendo piazze e strade, chiese sconsacrate e magazzini, palestre in disuso e vecchi cinema abbandonati, scuole e fabbriche, carceri e manicomi, andando a cercare gli uomini e le donne là dove vivono e lavorano, soffrono e gioiscono, s’incontrano e si scambiano esperienze. Là dove hanno ancora voglia di ribellarsi.
Andiamo di nuovo, fiduciosi, a far teatro fuori dai Teatri. Andiamo a incontrare gli scontenti. E chiediamo, anzi pretendiamo, che i Teatri tornino a fare spettacoli rispettosi della tradizione, tramandando la ricca memoria degli antichi maestri. Abbandonare questa memoria all’oblio, sarebbe un crimine. Questo chiediamo ai professionisti.
Ai ribelli chiediamo invece speranza e futuro. Il teatro del futuro.
Silvio D’Amico era solito burlarsi degli apocalittici e delle cassandre sostenendo con aria seria l’avvenuto, recentissimo, ritrovamento di un saggio teorico autografo di Eschilo dal titolo programmatico “La crisi del teatro”.
Il teatro è sempre stato in crisi – questo voleva dirci D’Amico –, eppure non morirà mai.
Molto interessante e giustamente provocatorio